In treno verso Trieste con Daniele Del Giudice
Questo mio testo è uscito nello scorso numero de La Lettura, supplemento del Corriere della Sera, il 519 del 7 novembre 2021.

Appena avuta fra le mani la nuova edizione di Lo stadio di Wimbledon, nella collana dei Supercoralli Einaudi, ho deciso di partire. La copertina rigida, telata, dal verde inconfondibile, la rilegatura a filo, la sovracoperta bianca, unica anche quella, nome dell’autore in nero, titolo in rosso, editore in nero sotto il dipinto iperrealista di un aereo da turismo in volo. La consistenza del volume, e quella letteraria, compatta e mobile. La solidità della forma, editoriale e narrativa (“Il vero comportamento che c’è nei libri è il comportamento di fronte alla forma. Il comportamento stesso di qualcuno che scrive”). L’attualità sorprendente e permanente di un romanzo che ci fa viaggiare dentro la scrittura e i suoi ineffabili perché, e la novità del suo autore che, come dice la fascetta che abbraccia il libro “Daniele Del Giudice è un autore che resterà nuovo per tante generazioni”. Noi, suoi lettori fedeli e fidati, queste cose le sapevamo da tempo. Io le so, Lo stadio di Wimbledon è puntuale in bibliografia ogni anno al corso di Scrittura creativa che tengo dal 2002 all’università di Padova. Un romanzo, certo, ma è anche il miglior manuale di scrittura possibile. E di generazioni ne sono passate in quelle aule, e letture, e tesi su di lui, e anche divertite sfide, questi ultimi due anni, a chi trovava le poche copie disponibili su eBay o Mare Magnum. Ora, il libro è di nuovo in libreria, nella collana più prestigiosa e importante.
Infilo il supercorallo in tasca e parto. Riporto il romanzo d’esordio di Daniele Del Giudice a Trieste come deve aver fatto lui mentre lo stava scrivendo, partendo la mattina dalla stazione di Venezia e rientrando la sera. Ci vado qualche decennio dopo quel 1983, data di uscita del libro, e a qualche settimana dalla sua morte. Non un pellegrinaggio, il mio, come non lo erano le sue andate e ritorni che scandiscono la struttura della prima parte del romanzo. “Andare in via Cecilia Rittmeyer? Escluso, questo non è un pellegrinaggio “. La ricerca del perché Roberto Bazlen non ha scritto non poteva esserlo. E nemmeno questo mio. Un omaggio, piuttosto. Non ci sono stati né funerali, né cerimonie, alla sua morte. E allora lo saluto così, appoggiando il nuovo supercorallo sul ripiano sotto al finestrino, accanto alla prima edizione, piena di sottolineature e di post it, quella. “Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz’ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo”. Inizia così il romanzo, che per la mia generazione – la successiva alla sua – è stato uno scossone, una possibilità, un’apertura verso la tanto temuta pagina bianca, un manuale dei sentimenti, che indicava come ci fossero modi nuovi per poterli raccontare. È stata la voce, la cifra di Daniele Del Giudice a sorprendere noi lettori quando Lo stadio di Wimbledon arrivò in libreria, confermata un paio di anni dopo da Atlante occidentale. È questa sua voce, che risuona a ogni riga, a rendere fondamentali i suoi libri.
Leggo. “Ho aperto gli occhi, e forse non ero pronto. Il militare di mezza età, al quale avevo prestato il giornale prima di addormentarmi, dice sorridendo: «Si è rotto il treno». Si alza, prende il berretto e l’impermeabile dalla retina e una sua cartella di cuoio; poi si affaccia al finestrino e fa un cenno definitivo: «È meglio andare a piedi»”. Un elastico, le prime righe del libro, come il treno su cui si trova l’io narrante, che lo sta portando a Trieste. Chi ha fatto quel viaggio sa che l’ultimo tratto è uno dei più belli ed emozionanti che si possano fare, con il golfo che si apre all’improvviso giù in basso, a destra, a strapiombo. A sinistra, invece, le pietre del Carso. Gli ultimi chilometri sono una lenta discesa, col mare che piano piano si riavvicina fino all’ingresso in stazione, quando ti riassesti anche tu – di nuovo e rassicurato – col filo dell’orizzonte.
A Trieste centrale ci arrivo nel modo consueto, non a piedi, lungo i binari come il giovane protagonista e il militare nelle prime pagine del libro. E so anche dove mi piacerebbe andare, non fosse che Del Giudice ha deciso di restare nell’indefinitezza, meglio, nell’imprecisione topografica. “Ho attraversato la grande piazza del municipio tenendomi sempre sul lungomare”. Oppure: “Fuori camminiamo lungo un viale abbastanza ampio, con alberi sul marciapiede e vetrine”. O ancora, sulla piazza: “Ho già fatto più volte su e giù tra il ghetto e la piazza del municipio, una piazza perfettamente nordica, per tre lati come Salisburgo e sul quarto, dove dovrebbe esserci il teatro, il mare”. Qualche posto è riconoscibile, ma Del Giudice ha scelto di non connotarla di preciso, Trieste, di non farne una guida letteraria, ma di trasmettere al lettore il sentimento di città così come percepito, provato, sentito dall’io narrante. Filtrata, anche, la città, dai racconti di chi aveva conosciuto Bobi Bazlen. Del Giudice narra tutto ciò attraverso la scrittura più nitida che la letteratura italiana abbia proposto da decenni. Così, con le due edizioni dello Stadio in tasca, non faccio che girovagare per Trieste, come fa l’io narrante nei frattempi tra un appuntamento e l’altro. Parto dalle rive, come lui – “Però mi fido ancora soltanto del lungomare, e al momento opportuno volto a sinistra per entrare nella città” – e attraccata al molo non c’è L’Île d’Oléron, mirabilmente immaginata nelle pagine che ho in tasca, ma una più ovvia e globale nave da crociera, enorme, che cancella un pezzo di paesaggio.

Vago sotto al sole d’autunno e mi piacerebbe adesso poter chiamare da una cabina la signora dei sestanti, come fa il protagonista quando ha bisogno di essere rassicurato nella sua ricerca, quando deve mettere in ordine i tasselli di quella ricerca, ma oggi non c’è più nessuno dei personaggi che lui incontra nel libro. Non c’è più nemmeno l’autore, ma quelle pagine piene di dubbi, piene di malinconici perché rimasti senza risposte, danno forma forse all’unico e vero romanzo che ci dice che la scrittura e il narrare sono delle certezze. Perché da una ricerca senza risposte scaturisce ciò che di meglio uno scrittore possa fare: un romanzo che attraversa le epoche.
Il treno di ritorno riesco a prenderlo con agio, ma non in tutta calma, l’ultimo tratto verso la stazione, dopo aver perso per un po’ la cognizione del tempo davanti alla vetrina della Libreria Saba, lo percorro con una certa apprensione. Fossi stato davvero in ritardo, non avrei potuto comunque fare come nel libro. “Mi aggrappo a una maniglia mentre il treno comincia a muoversi e il capostazione che sta tornando indietro grida: Ma cosa fa?”. Io invece faccio in tempo a comprare una bottiglietta d’acqua, salgo, e mi siedo in senso di marcia a sinistra, lato golfo, dove il sole sta tramontando. “C’era un posto accanto al finestrino, di fronte a una ragazza. Ha la faccia triste, sembra quasi che stia per piangere. Magari non è vero, magari è la sua espressione normale. Però, dopo, si alza a guardare il tramonto sul golfo, all’uscita dalla città, con un languore tale che non si sa come mettere le gambe”. Scendo col buio, a Venezia. Ci sarebbe tutta la seconda parte, quella di Wimbledon, adesso, da portare a destinazione. Ma la destinazione di un libro, alla fine, è solo e sempre la sua lettura. Da fare e rifare ovunque, come succede quando hai di nuovo fra le mani Lo stadio di Wimbledon.