Si yo fuera Maradona

No, non so proprio che cosa dire, se non ripetere nella memoria la bella canzone che Manu Chao gli ha dedicato. E rileggere quello che ho scritto ventuno anni fa, il 4 gennaio 2000, quando il mio coetaneo Maradona era in ospedale e dal giornale (non ricordo più sei il manifesto o Il Gazzettino) mi chiamarono per scrivere in fretta e furia un articolo, un ritratto. Lo avevano dato per spacciato, e scriverlo fu allora difficile e doloroso. Non lo riscriverei più così, ma il concetto rimane lo stesso. Maradona è stato grande, grandissimo, per ciò che era. Diego era Diego e basta.

Hasta siempre, Dieguito.

Ormai non dovrebbero nemmeno fare più notizia le disavventure di Diego Armando Maradona. E invece eccolo di nuovo qui, a riempire pagine dei giornali di tutto il mondo, a far traballare – di nuovo – le nostre coscienze. Ogni volta che all’improvviso il suo faccione appare dietro le spalle del giornalista, dentro di noi si affastellano flash contraddittori: un gol in rovesciata e il Maradona imbolsito che voleva comprare il Napoli; le lacrime dopo la squalifica e Maradona che bacia la Coppa del Mondo. Succede questo dentro di noi, e le nostre coscienze vacillano davanti al pensiero di un uomo di 39 anni steso sopra a un lettino del reparto terapia intensiva di un ospedale uruguagio, a combattere con un cuore minato dalla cocaina. Un uomo che, apparentemente, ha avuto tutto dalla vita e che non si capisce perché sia finito in questo modo. E subito, allora, siamo tutti pronti a scagliarci contro il mito decaduto, addosso al cattivo esempio per i giovani, a questo “core ‘ngrato”, che si è preso tutto, fama, soldi, risultati e ci ha ridato solo immagini negative. Ogni volta, fatalmente, spariscono le altre, di immagini: quelle dei palleggi al San Paolo il giorno del suo arrivo a Napoli, i gol che portarono gli azzurri allo scudetto prima e alla Coppa Uefa poi, i suoi sublimi calci di punizione, i mondiali del 1986 che ha vinto praticamente da solo, con quel magnifico gol contro l’Inghilterra partendo da centrocampo e quello di pochi minuti prima, segnato con la mano, “la mano di Dio”, disse lui. Sparisce il Maradona campione e subentra il disadattato, quello che fuori dal campo si trasforma, Dottor Jekyll e Mister Hide. Ci resta solo il Diego amico dei camorristi, il Maradona in manette, il Dieguito cacciato dai mondiali del ’94 perché colto, di nuovo, in flagrante, quello che spara (davvero, col fucile) ai giornalisti colpevoli di assediarlo.
Era appena stato eletto calciatore e sportivo del secolo in Argentina, e lui? Come ringrazia, il “core ‘ngrato” Diego Maradona, quello che giura sempre sulle teste delle sue figlie? Strafacendosi di coca. Che squallido ‘sto Maradona. Sono questi i commenti che si sentono in giro.
Ma se anche questo, invece, facesse parte della grandezza del Pibe de Oro? Se questo suo procedere perennemente fuori rotta, questa sua andatura esistenziale tutta storta, sghemba, fosse solo l’incapacità di saperla (o di volerla) gestire, tutta quella grandezza? È piccolino Dieguito, troppo piccolo per non ubriacarsi col peso della notorietà, dell’importanza, della gloria. Soprattutto adesso che il suo bagaglio si sta trasformando in ricordo, in icone del passato. Certo, questa lettura è banale quanto quella – come chiamarla – “benpensante”. Ma perché questa non viene mai fuori?
Maradona calciatore i suoi gol li ha segnati, eccome. E nel calcio, nell’immaginario collettivo, ha lasciato un segno indelebile. Nella vita, invece, solo autogol. Autogol di quelli pesanti, che ti fanno perdere partita e campionato. Sono queste due dimensioni così contrastanti, così bianco e nero, positivo e negativo, a far traballare le nostre coscienze, salvo poi, quando si tratta di esprimere, di dire cosa si pensa, essere allora perfettamente accusatori, pronti a cacciare nell’angolo l’ex campione che – comunque – ha messo in atto una sorta di autodistruzione del mito. Fa del male solo a se stesso, Maradona. Ma al mito, oggi, soprattutto quello sportivo, non si può perdonare nulla. L’immagine deve essere positiva, tipo quella – un po’ patetica – di Del Piero studente universitario col tutor che lo prepara agli esami. Perché l’essere maledetti, come Rimbaud, Jim Morrison e Kurt Cobain fa parte in pieno del loro mito e per un calciatore invece no? Dev’essere perché non si leggono più romanzi né poesie. È passata decisamente di moda la figura dell’artista maledetto, di quello tutto genio e sregolatezza, che affascinava tanto nel bene quanto nel male. E che cosa è stato Diego Armando Maradona se non un artista? Meglio: non è egli forse – anche adesso – come un personaggio uscito dalla penna di qualche scrittore di talento? Fosse ancora vivo Soriano, verrebbe da chiedergli di scriverla lui, un giorno, la storia di Diego Armando Maradona. Lo farà qualcun altro. Intanto, lui, Dieguito, sta sparpagliando alla rinfusa i capitoli di quel libro, una specie di sconclusionato romanzo d’appendice che comunque siamo tutti lì, pronti a seguire puntata dopo puntata, avidi di nuovi episodi. Salvo, poi, essere sempre pronti all’indignazione, allo sconcerto, a puntare il dito contro questo piccolo ma grandissimo core ‘ngrato.


Qualche anno dopo, ho scritto di nuovo su Maradona. E non ricordo per chi.

Maledetta televisione. E sciagurati (noi) giornalisti. Vampiri pronti a tutto. Per che cosa poi, nemmeno lo sappiamo. Certo, tutti siamo ormai consapevoli che nessun evento può sfuggire oggi all’occhio di vetro delle telecamere. Se non è quello della tv, è quello del videoamatore, e se non è nemmeno il suo sarà quello di una webcam collegata in rete, accessibile a chiunque.

Che belle scorpacciate ci facciamo ogni giorno: dal ladruncolo rincorso dalla polizia per le highway californiane, ben ripreso dall’elicottero della CNN che tifa (o paga?) perché l’inseguimento finisca nel momento di maggior audience, allo snowboarder che si fracassa contro il palo del traguardo. Diritto e dovere di cronaca. Durante la guerra nella ex Jugoslavia a lungo si è dibattuto su cosa fare o non fare vedere delle immagini – terribili – che arrivavano dalle agenzie internazionali. Io, che lavoravo per una televisione proprio della ex Jugoslavia, decisi di mostrare tutto. Pensavo fosse un atteggiamento coerente e lo penso ancora. Discutibile, certo, però coerente. Ma non vale per tutto. Già.

Non avrebbe dovuto valere per l’intervista a Diego Armando Maradona. Quella no. Quella non avremmo dovuto vederla. Non avrebbero dovuto mostrarcela. È stata una delle più violente, imperdonabili e ciniche violazioni della privacy mai viste. E non parlo di privacy nel senso della legge, ma nel senso assoluto di privato e di intimo. Certo, questo dovrebbe valere per chiunque, ma nel caso di un mito, di una leggenda, di un simbolo qual è Maradona, vale mille volte di più. E quel mostrare, esibire morbosamente un ex campione gonfio di tranquillanti, lo sguardo perso nel nulla, la voce da moribondo, impastata e incomprensibile, tanto da rendere necessari i sottotitoli, ha perpetrato il linciaggio che El Pibe de Oro sta subendo da quella schiera di moralisti gratuiti e superficiali cui è piena la nostra società. Non tutte le tv, per fortuna, hanno trasmesso l’intervista. Ma che pena, il giornalista che, finito il servizio, commentava col più partecipato e patetico e così televisivo dei “non ci sono commenti”. Gli hanno fatto dire che si pente, che si fa schifo, che la droga lo ha rovinato e che ora farà di tutto per disintoccarsi. Gli hanno di nuovo fatto tirar fuori le figlie. I falsi moralisti hanno fallito ancora e l’hanno fatto con un uomo imbottito di psicofarmaci. E che rabbia, allora, dopo le lacrime (sì, per un momento ho pianto per Maradona, quella sera), quanta rabbia, invece – mi auguro – in molti di noi. Tanta da desiderare di essere lì, e mandare in frantumi la telecamera, insultare lo staff di Maradona che ha consentito lo spettacolo, rincorrere l’intervistatore per tutto il paese.

È chiaro, un Maradona ridotto in questo modo, fa comodo a tanti, troppi. Ma ad altri no. Altri – pochi – sono convinti che Maradona, questa sua partita, stavolta, deve giocarsela in silenzio, magari coccolato – perché no – dal suo amico Fidel Castro. Niente tutto esaurito sugli spalti, né giornalisti fuori dal cancello, ché stavolta, dovesse prendere mano alla doppietta, El Pibe, ne avrebbe un bel po’ – stavolta – di giustificazioni.