Antonio Tabucchi, otto anni fa

Oggi, otto anni fa, moriva a Lisbona lo scrittore Antonio Tabucchi. Oggi, più che mai, sentiamo la sua mancanza. Oggi, più che mai, i suoi libri restano un faro per il nostro futuro. Perché, come ha scritto in Sostiene Pereira: “… la smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro. Che bella espressione, disse Pereira, frequentare il futuro, che bella espressione, non mi sarebbe mai venuta in mente.”

Qualche giorno fa, a Fahrenheit, Radio3, insieme a Riccardo Greco e Loredana Lipperini, abbiamo ricordato Antonio Tabucchi e il suo Sostiene Pereira, letto da Viola Graziosi in questi giorni alle 17.00 nella trasmissione Ad alta voce.

Qui sotto trovate il link per riascoltare quell’intervento. Prima però, qualche riga da Storie che accadono, uscito nel 2017 in Francia, edito da La Contre Allée con il titolo Ces histoires qui arrivent, e inedito qui in Italia. Anche queste righe sono inedite, perché nella versione italiana ci sono molte più storie che accadono.

Dentro al Jazigo dos Escritores Portugueses II, poco fa, davanti all’urna con le sue ceneri ricoperta da un panno color crema a fiori arancioni, per un momento, lo confesso, ho avuto la tentazione di scattare una foto. Solo per un momento, con un immediato brivido di imbarazzo al pensiero. È anche per questo – lo sapevo, mi conosco – che mentre stavamo per entrare al Cemitério dos Prazeres, ho spento l’iPhone. Tentazione che si è ripetuta all’uscita, quando Tirsa mi ha strattonato per tirarmi via e io stavo per opporre resistenza, stavo per liberare il braccio sinistro dalla sua presa e infilare la mano nella tasca, estrarre il telefono e scattare la foto, un preciso rituale, che ripeto più volte al giorno ma che in questo caso sarebbe servito più a stemperare lo sgomento che a scattare una foto necessaria o importante. Avevo anche individuato, all’istante, l’incidenza del sole fra gli alberi, l’angolazione dei raggi, avevo ritagliato al volo, mentalmente, l’inquadratura migliore. Sarebbe stata una foto senza bisogno di didascalia, un’immagine intima, il tentativo maldestro di fissare in milioni di pixel un’emozione, per un momento ho avuto la bislacca convinzione di poterlo fare, che le lenti Leica del mio smartphone potessero avere anche quella impossibile prerogativa di catturare non solo luci e colori, ma anche il preciso sentimento che stavo provando in quell’istante. Ci riuscissi, un giorno potrei inventare anche un nuovo social, Feelgram o roba simile. Sì, andiamo, ho detto a Tirsa e la luce di Lisbona, a quell’ora, dentro al Cemitério dos Prazeres, attorno a mezzogiorno, ci ha soltanto accompagnati fuori e io, adesso, senza nessuna immagine, posso solo ricordarla, quella luce spiovente, sfavillante, sul vialetto del cimitero.

Ascolta il podcast tratto da Fahrenheit del 16 marzo 2020, qui.