Venezia è inondata
Questo mio articolo è uscito giovedì 14 novembre sulla Nuova Venezia. È un estratto da un lungo reportage che sarà pubblicato oggi dal quotidiano francese Le Monde.
Giri per la città, la mattina dopo, e un solo pensiero si ripete incessante: la notte scorsa Venezia è morta. Non è solo un pensiero, più cammino, più mi guardo intorno e più quel pensiero diventa un sentimento forte e tangibile. Vaporetti affondati, alberi sradicati, capitelli polverizzati, e poi negozi distrutti, appartamenti resi inabitabili. I vaporetti affondati sono a pochi passi da casa mia. Erano ormeggiati lì per la notte. La mareggiata deve averli fatti sbattere l’uno contro l’altro, distruggendoli. Più in là, via Garibaldi, uno dei luoghi più vivi e vivaci della città, invaso l’altra sera da una vera e propria ondata d’acqua, sembra uscito direttamente da quel lontano e famigerato 4 novembre 1966, da quell’alluvione devastante, solo che sono passati cinquantatré anni, ed è successo di nuovo, e non un solo negozio di questa – che è l’unica via veneziana – si è uscito salvato. C’è chi si danna per rimettere in ordine quanto possibile, e chi si guarda intono smarrito, senza sapere bene da dove incominciare. Alcuni di quei negozi sono ridotti talmente male che ti domandi se riusciranno mai a riaprire, con la consapevolezza, poi, che oggi e domani si ripete, maree eccezionali, senza sosta, estenuanti e invincibili, e allora ti chiedi anche perché mai darsi così da fare. C’è un senso di impotenza che si mescola a rabbia, a rassegnazione, a paura. In Riva dei Sette Martiri, il bar Melograno, dove ho trascorso, negli anni, centinaia e centinaia di mattine e di pomeriggi a scrivere, ha le vetrate sfondate. Guardo dentro, e quel sentimento diventa profonda tristezza, dolore. È il mio luogo dell’anima questo, e a vederlo ridotto così, non trovo le parole. Poco più avanti, all’altezza della Biennale, il muretto che si affaccia sulla laguna ha dei tratti completamente distrutti, strappati via come se fossero fatti di polistirolo. La mattinata è grigia, ma sono costretto a mettere gli occhiali scuri. Voglio che le mie emozioni rimangano mie, nascoste là dietro. Il mio cammino continua e l’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine, ma poi riesco a trovare il modo di far convivere dolore e indignazione. Succede quando esco dal negozio-galleria del fotografo Marco Missiaja. Non conosco nessuno che ami questa città quanto lui, che sa guardarla attraverso i suoi obiettivi come pochi. Quel posto, che ho imparato a conoscere come un concentrato di bellezza e talento, che mostra Venezia al mondo intero, nel giro di pochi minuti è diventato come una specie di discarica, di foto accartocciate, macchine fotografiche da buttare, cornici divelte. Con lui, abbiamo evocato il Mose. Il Mose, quella ridicola e scandalosa grande opera, costata miliardi di euro, mai finita e che, scommetteteci, mai entrerà in funzione, servita solo ad arricchire i soliti noti, alcuni finiti in galera, altri invece usciti indenni, quell’opera è non solo inutile ma pure dannosa, visto che c’è chi ha dimostrato come sia essa stessa una delle cause di queste maree eccezionali sempre più frequenti. Allora, là fuori, rientrando a casa, una cosa l’ho capita: Venezia la può salvare soltanto il resto del mondo. Una sovrastruttura internazionale composta da gente competente e capacissima, perchè noi, veneziani e italiani, ormai è assodato, non siamo in grado di gestirci da soli. Abbiamo lasciato morire la città più bella del mondo e con lei noi stessi. Qualcuno ci aiuti a resuscitarla. Noi, lo confessiamo finalmente a gran voce, siamo soltanto colpevoli.
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