Barack Obama, il Presidente

Oggi, 10 novembre 2016, secondo giorno dell’incubo mondiale, Barack Obama riceve allo studio ovale della Casa Bianca il signor Donald Trump. Al di là dello stridio dell’immagine, al di là del significato politico e etico di questo incontro, desidero invece sottolineare e ricordare, otto anni dopo, la vera notte storica, il vero momento epocale, che non è quello di un imprenditore buzzurro che diventa presidente, bensì quel che è stato, è, e sarà per sempre la notte del 5 novembre 2008. La portata storica e sentimentale e civile di quella notte – che molti sembrano avere dimenticato, addirittura cancellato – è stata talmente enorme e intensa e emozionante, che ne scrissi immediatamente un testo per il Corriere del Veneto. Quel testo, divenne lo spunto, tre anni dopo, del terzo capitolo di Sentimenti sovversivi, pubblicato nel 2011 da Isbn edizioni. Lo ripropongo qui, perché mi piacerebbe ribadire che la politica non è soltanto riduzione delle tasse, posti di lavoro, riforme, politica estera e tantomeno innalzamento di muri alle frontiere o minacce di lanciare bombe atomiche dopo un attentato (Trump). La politica dovrebbe essere prima di tutto valori, principi, ideali. Sì, sì, ideali: quella cosa che a tanti oggi mette i brividi, perché gli ideali ti fanno volare alto, perché mettono in moto pensieri e immaginario, perché quando ci sono tirano fuori il meglio che c’è in te, e gli ideali, i valori, i principi non hanno nulla a che vedere col tizio che in questo momento sta incontrando il Presidente Barack Obama. 

Sono passati otto anni da quella notte, e all’improvviso sembra sia un’eternità. Ma io non ho alcuna intenzione di dimenticarla, quella notte. Né di cancellarla. E la ripropongo qui per ribadirne la forza, con la consapevolezza che quella forza non è svanita. Con la consapevolezza e la certezza che lo rimpiangeremo eccome, Barack Obama.

Da Sentimenti sovversivi, Isbn edizioni 2011.
Era l’alba del 5 novembre 2008, a Venezia, e dopo giorni di acque alte e di pioggia, spuntava il sole. Anche in quell’accenno di mattino, prima di andare a letto, mi ero affacciato alla finestra. Nella calle sotto casa c’erano ancora i segni dell’acqua alta del giorno prima. In cielo, l’alba più nitida che un inverno, lì, a Venezia, possa darti. Barack Hussein Obama era stato eletto presidente degli Stati Uniti e quando l’incredulità si mescola alla gioia, crea un’emozione che si contraddice di continuo. Non ci credevo, mentre lo sentivo fare il suo discorso di vittoria al Grant Park di Chicago, mentre guardavo la gente piangere e io pensavo al giorno in cui i miei genitori mi dissero che avevano assassinato Martin Luther King, alla loro commozione, poco chiara per un bambino di seconda elementare e la mia, adesso, ancor più incredula, ché non potevo credere che, quarant’anni dopo, stavo ascoltando il discorso del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Le sue parole, così inconsuete. Da dove viene, mi domandavo davanti a quell’alba nuova, Barack Obama? Forse viene da tutti noi (quanti di noi?), Barack Obama, sbucato fuori dai nostri sentimenti e dal nostro immaginario. Noi, incollati tutta la notte alla tv, a scambiarci speranze e dubbi via sms, facebook, twitter, a tenerci virtualmente per mano perché questa notte è la notte cruciale di un’epoca, la nostra, e no, non ci potevamo credere che fosse vero. Una notte, poche ore, il tempo per inabissarci del tutto oppure svoltare. Poche ore e, increduli, eravamo già – forse – nella nuova epoca. Sembrava ci fossimo reimpossessati, in una notte, del vero significato delle parole. E adesso, che era forse l’alba di un’epoca nuova, potevo andare a dormire. E non c’era più bisogno di sognarlo, uno come Barack Obama.

E al telefono, Teresa, la notte del 5 novembre 2008, quasi all’alba, prima di andare a dormire, mi aveva domandato e adesso? Adesso che da lui pretenderanno il doppio che da chiunque altro, adesso che non gli perdoneranno nulla, cosa riuscirà a fare? Io, avevo ancora negli occhi le foto di quella mostra che avevamo visto insieme, qui in Francia, foto di neri impiccati, di neri bruciati vivi, di neri fatti a pezzi, di neri moribondi circondati da bianchi sorridenti e festosi, famigliole intere con padri che indicavano corpi di neri squartati e smembrati ai figli e quelle foto erano delle cartoline che i bianchi si spedivano con frasi tipo, visto il nostro barbecue di domenica scorsa? Cartoline degli anni trenta. In una di quelle immagini stavano bruciando vivo un uomo e, davanti a lui, si mettevano in posa per la foto, come se fossero davvero a un barbecue qualunque, vestiti con l’abito quello buono. Davanti a quella foto Teresa aveva avuto un sussulto. Una scossa di dolore che l’aveva attraversata fino a spegnersi nella mia mano, che teneva stretta la sua, che aveva accumulato quella scarica e aveva cercato, la mia mano, di tradurla, là davanti, nel gesto più tenero possibile, una carezza che non credo avrebbe potuto mai, però, rovesciare l’emozione di Teresa, sovvertirne l’intensità. Te le ricordi quelle foto? le avevo detto al telefono. Ecco, vedi, è talmente enorme ciò che sta accadendo, un afroamericano presidente degli Stati Uniti che, le avevo detto, per quel che mi riguardava, Barack Obama, nei prossimi quattro anni, poteva pure appendere un’amaca a due alberi del giardino della Casa Bianca e starsene lì per l’intero mandato presidenziale, avevo detto, pur consapevole di ciò che di altrettanto enorme, di quali scelte politiche impensabili, avrebbe fatto fin dal giorno dopo.

Guardavo il paesaggio, quella notte d’estate, durante il mio soggiorno di lavoro qui a Saint-Nazaire, lontano dal mio paese. Dove volevo soltanto scrivere e saperne il meno possibile dell’Italia, di quel che vi accadeva, degli immigrati definiti clandestini e perciò arrestati, perché la clandestinità è un reato, nel mio paese. Non volevo più saperne delle ronde padane razziste, scuola e cultura e ricerca smantellate, di ministre scelte in base al book fotografico e altre prestazioni. Ma il villaggio globale è ormai dentro di noi e nemmeno io so resistervi. È riuscito a devastare anche il mio ricordo di quella serata memorabile, il capo del governo del mio paese e, soprattutto, ha contaminato l’immaginario di tutti coloro che, una notte di novembre, hanno vissuto un sogno che diventava realtà.

C’era una frase, quella notte, che Obama aveva pronunciato a metà del suo discorso e che mi aveva fatto credere che il riverbero di quelle parole potesse arrivare fino a noi. Che anche nel mio paese, di lì a poco, ci potesse essere spazio per un impossibile, al momento, Yes, we can. «A coloro che ci guardano questa sera da lontano, da oltre i nostri litorali, dai parlamenti e dai palazzi, a coloro che in vari angoli dimenticati della Terra si sono ritrovati in ascolto accanto alle radio, dico: le nostre storie sono diverse, ma il nostro destino è comune e una nuova alba per la leadership americana è ormai a portata di mano.» In quel preciso momento, dentro a un palazzo di Roma, il capo del governo del mio paese scopava con delle puttane.