Ritornare a Parigi (otto)

L’ultimo pomeriggio del mio soggiorno parigino ho appuntamento con Irène Lindon, la direttrice di Les Éditions de Minuit. Potrei raccontare com’è andata, che cosa ci siamo detti. Ma il testo si discosterebbe di poco da quanto ho raccontato nel primo capitolo del romanzo Sentimenti sovversivi. Allora, meglio leggere quelle pagine, dalla 15 alla 17.

   
Più tardi, dopo cena, nel buio di quello che sarebbe stato il mio appartamento qui a Saint-Nazaire, avrei rivisto me stesso a inizio anni ottanta, non ancora ventenne, trovare a fatica, nel mio primo viaggio a Parigi, ebbro di poeti maledetti e di Jim Morrison, ma anche di École du regard, che è l’altro nome con cui veniva definito il Nouveau Roman, quella stradina stretta di Saint-Germain de Près, rue Bernard-Palissy, numero 7. La ricordo bene l’epoca del Nouveau Roman, lo sforzo, in quel periodo, di affrontare i romanzi di Alain Robbe-Grillet, di Claude Simon, di Robert Pinget, di Michel Butor, di Natalie Sarraute, e di Samuel Beckett, soprattutto, che furono esperienza, ostacolo e soddisfazione insieme. E una lezione, anche. Svoltai l’angolo, e mi ci ritrovai davanti, “senza volerlo, faccia a faccia con quel portoncino di legno, così incongruo, apparentemente, rispetto alla soglia letteraria che rappresentava, eppure così coerente, a pensarci bene, con la storia di quella casa editrice. Un portoncino riverniciato più volte, la densità irregolare e visibile degli strati color amaranto, con una targhetta piccola, di quelle che si usavano quando ero bambino, scritta dorata su sfondo nero, ricoperta in plastica trasparente, smangiata ai lati dai tempi, quello atmosferico e quello dell’età. Sopra c’era scritto Les Éditions de Minuit, Administration. Sotto, un’altra targhetta più piccola e di metallo: Entrez sans sonner. Ma a me bastava vedere tutto da fuori, e infatti non ci pensavo per niente di spingerla, quella porta.

Diedi un’occhiata alla vetrinetta lì accanto. In realtà era il davanzale della finestra di un ufficio, a piano terra, sul quale erano esposti i libri pubblicati di recente. Anche su quel semplice davanzale, i romanzi Minuit mi incantavano. Merito delle loro copertine. Il sogno di ogni autore, posso dire oggi: non avere l’incubo della copertina, le discussioni continue con quei grafici che spesso fanno scempio di quello che dovrebbe essere il vestito del nostro libro. Non credo esista l’ufficio grafico da Minuit. Copertina bianca e, dentro un sottile bordino blu, nome dell’autore in nero, titolo in blu, il marchio dell’editore, una stellina e una emme minuscola in nero, così come roman, stampato poco più sotto. Tutto qui. Le copertine più sobrie, più note e – credo – più amate di Francia e da uno studente veneziano, incantato lì, davanti a quella finestra. 
Quando stai a lungo a osservare qualcosa, quando ti avventuri dentro ai dettagli, capita di perdere – per poco – il contatto con la realtà. Così fu con una leggera spinta che il portoncino amaranto si spalancò e subito di fronte a me vidi una scala strettissima di legno arricciarsi all’insù, verso il buio. Avrei potuto fermarmi lì, respirare quanto bastava di quel luogo e invece fu questione di poco e sentii gli scalini scricchiolare sotto i miei passi forse allo stesso modo di quando, nel 1951, ci salì per la prima volta un autore sconosciuto, che portava sottobraccio il manoscritto di un romanzo intitolato Molloy. Uno scrittore alto alto e magro magro che non sorrideva mai. Samuel Beckett, irlandese, che però quel romanzo lo aveva scritto in francese. Al primo dei quattro piani c’era un ufficio con una dei pochi impiegati di Minuit. Mi guardò, mi salutò, io nemmeno guardai dentro, cercando di fare l’indifferente. Bonjour, balbettai, ora mi caccerà, pensai, e invece tacque. Provocai, spostandomi, qualche altro scricchiolio e lei mi guardò di nuovo. Ecco, ci siamo, pensai, e invece mi disse che mademoiselle era di sopra, all’ultimo piano, precisò. Ringraziai e non saprò mai se la mademoiselle era la stessa che incrociai qualche gradino più su. Colto in flagrante le dissi che ero uno studente italiano, lì per una ricerca, e lei mi portò in un ufficio sobrio, poco illuminato, e incominciò a selezionare dei dépliant. Mica avevo mentito, anzi, ma non ho mai avuto la minima idea della faccia che deve avere fatto mademoiselle quando, giratasi per porgermi il materiale, si è ritrovata sola in un ufficio vuoto di altre presenze, e l’impiegata del primo piano nemmeno deve avermi visto sfrecciare all’ingiù. Solo la frequenza degli scricchiolii stava dicendo a tutti, là dentro, che c’era uno che se la stava dando a gambe.