Ritornare a Parigi (sette)

di un voyeurismo invadente, addirittura macabro. È con questo dubbio irrisolto che mi avvicino al Bataclan, il cui nome, per noi veneziani sarà per sempre associato a quello di Valeria Solesin. Questo strano palazzo che nella parte superiore sembra una caramella multicolore, sotto è buio, un’oscurità diffusa che la pioggia acuisce, la tenda esterna nera con la scritta Bataclan Café in giallo, gli infissi del bar neri come le porte d’ingresso, le tende rosso scuro tirate all’interno. Il memoriale spontaneo che ci eravamo abituati a vedere alla televisione è stato spostato poco prima di Natale sull’altro lato della strada, per permettere ai residenti di ritornare per quanto possibile alla solita quotidianità, per non rendere concreto in ogni momento lo choc che comunque porteranno per sempre dentro di sé. Le transenne che delimitano lo spazio sono quindi vuote, non fosse per un mazzo di rose rosse bianche e gialle che qualcuno ha riposto lì da poco, pochissimo e da cui spunta un biglietto che non ho il coraggio di prendere in mano, di leggere. Nessuno lo farà, lungo tutto il tempo che starò là nei paraggi. Anche dall’altra parte della strada, lungo la ringhiera del giardino di boulevard Richard Lenoir, i segni del ricordo (lumini, sciarpe, pelouche, magliette) non sono molti. 

 
La mairie di Parigi li sta raccogliendo, archiviando e catalogando uno a uno, per riposizionarli un giorno in un luogo della città che diventerà il vero luogo della memoria, quello che per ora è il monumento di Place della République, vero ritrovo del ricordo, dove sono stato poco prima di venire qui, con oggetti di ogni tipo lungo tutta la circonferenza, con decine e decine di persone tutt’intorno, a leggere i messaggi, a raccogliersi davanti alle foto delle vittime, ai disegni dei bambini e con due signori anziani, una coppia, che ho subito definito i “manutentori della memoria”, lei a rimettere in ordine lumini, piante, raddrizzare bandiere, mettere da parte fogli fradici e illeggibili, lui che gira attorno al monumento con un sacchetto di pennarelli colorati e qua e là ritocca ciò che la pioggia e il vento hanno compromesso, e allora eccolo alle prese con un blu scolorito qua, un verde sbavato più in là. I manutentori della memoria: bellissimo. E mentre il il monumento di Place de la République induce a sostare, a raccogliersi, qui al Bataclan la gente passa in fretta, scatta qualche foto, se ne va. Qualcuno gira l’angolo del Passage Saint-Pierre Amelot, laddove un giornalista di Le Monde, dalle finestre di casa sua, riprese col telefonino la gente in fuga dal locale, alcuni feriti. Non c’è nulla da vedere, ma solo da ricollocare quelle immagini nella realtà di questo asfalto, di queste pietre, di queste finestre. Voyeurismo, come quei due che si stanno facendo un selfie con alle spalle l’entrata del Bataclan.Mi dirigo verso il Canal St. Martin, dove ci sono gli altri locali degli attentati del 13 novembre. Hanno riaperto quasi tutti, salvo il Petit Cambodge che, insieme al Carillon, là di fronte, ha contato il maggior numero di vittime. E qui il contrasto è evidente. L’uno con le serrande semi abbassate e le vetrate sbarrate da delle tavole di legno, l’altro che è stato il primo a riaprire e dove tutto sembra essere ricominciato come sempre, con la vivacità tipica di questo bar, considerato il luogo del ritrovo della gente del quartiere. Un contrasto che è lo stesso che ciascuno si porta dentro da quel 13 novembre, la vita che deve scorrere come sempre, e le serrande abbassate su un dolore che non dovremo dimenticare. Mai.