È la Biennale o il Carnevale?
Oggi si inaugura a Venezia la 56. Biennale Arte. Due anni fa, in occasione dell’edizione precedente, ho scritto questo commento per il Corriere del Veneto. Si tratta di un testo che avrei potuto riprodurre parola per parola anche per questa edizione. E infatti lo faccio qui, mentre mi avvio a visitare i padiglioni. Nei giorni scorsi a Venezia è ritornato il Carnevale. Poco male, direte, visto che è ritornato pure l’inverno, e il carnevale, si sa, è roba invernale. Un carnevale diffuso in giro per la città e però esclusivissimo. Chiuso. Feste ovunque, quasi a tutte le ore e però blindatissime. Con la corsa agli inviti che sembrava una caccia al tesoro. E ovunque, dj set e spettacoli, star e attrazioni varie, nei palazzi più prestigiosi e negli yacht da nababbi. Roba per pochi, pochissimi, insomma. Erano i giorni della vernice della Biennale Arte, eppure sembrava di stare a Ibiza. Perché? Non c’era mai stata una tale densità di glamour attorno alla Biennale Arte. Attorno, perché la Biennale non c’entra. Una delle poche istituzioni rimaste in questo paese a fare sul serio cultura, anche e soprattutto in questi tempi di difficoltà.
Ad affannarsi nella gara all’organizzazione della festa più esclusiva e chic è stato tutto un corollario di sponsor, di associazioni, di privati, di chi più ne ha più ne metta. Pochi, pochissimi addetti ai lavori. Forse per la prima volta, l’arte è stata trasformata in un puro pretesto per la mondanità. Un ammantarsi, insomma. Il Canal Grande, giovedì sera, a percorrerlo in vaporetto, era un via vai continuo di taxi dai quali saltavano fuori – con seri rischi per l’incolumità propria o altrui – tacchi 12 a ripetizione, “mise” uscite dalle ultime collezioni. Tutta roba che veniva da chiedersi quale legame avesse – ammesso ci fosse, un legame – con l’arte. Feste, feste ovunque, musica a palla, fin quasi all’alba. Come a carnevale, ma questa volta con la città, i cittadini e i turisti tenuti alla larga, lontano. Fuori. Risalendo il Canal Grande, giovedì notte, veniva da domandarsi il perché. Perché così tanta festa proprio quest’anno, nel momento più difficile per chi fa una vita normale, per chi riesce a fatica a sbarcare il lunario. Quei siparietti psichedelici dalle finestre dei palazzi e dai giardini, indisponeva. Fra i commenti dei veneziani, a bordo del vaporetto, il più soft era di sconcerto. Ovvio, a quel punto, mettere insieme le due cose, l’arte contemporanea è sinonimo di glamour, perché quello – è evidente – era il messaggio che passava. E la sensazione, allora, era che tutto quel contesto, estraneo alla Biennale, tutta quella ostentazione, andasse a intaccare il lavoro difficile, complesso, che l’istituzione veneziana ha fatto in questi anni e cioè di avvicinare Venezia e i veneziani a degli appuntamenti internazionali ai quali da molto tempo si erano sentiti esclusi. In questi giorni di vernice, quel divario sembra essersi riaperto. Come se un lavoro di anni fosse svanito via con le note bum bum che giravano nell’aria. L’arte contemporanea – è il messaggio che passava davanti a quel via vai – è roba da Abramovich e da Elton John. Non per noi. Ormai pare questo il destino della cultura, in questo paese: la spettacolarizzazione. Come se il pensiero e le forme espressive non bastassero più o, peggio, facessero paura. La cultura, da esorcizzare – e demolire definitivamente –con un dj set.