Il ponte dell’Accademia

Questo mio articolo è uscito il 5 agosto 2011 sul Corriere del Veneto.

Ci vediamo all’Accademia, dicono spesso i veneziani. E non si tratta di darsi appuntamento davanti alle Gallerie, bensì sul Ponte. Sopra, o ai suoi piedi. Se il Ponte di Rialto è il luogo turistico per eccellenza, e perciò luogo impensabile come rendez-vous per i residenti, se il Ponte degli Scalzi è il ponte di chi ha fretta di raggiungere la stazione (ed è una sorta di Tourmalet, tanto è irto, imponente, scomodo) e se quello di Calatrava è il ponte dei pendolari, il Ponte dell’Accademia è il più sentito e amato dai veneziani. Questo, forse, proprio per via della sua eterna provvisorietà, oltre che per quella fragilità evidente, sensibile. Veneziana. Ma non solo. Il modo in cui è fatto, la sua particolare pendenza ti consente uno sguardo prolungato verso chi viene in senso contrario al tuo. Sia in salita che in discesa. Così, un giorno, ho capito perché il Ponte dell’Accademia mi piace così com’è e, come tanti altri veneziani, vorrei non fosse sostituito. Perché un giorno, su quella struttura di legno e ferro, sopra i centoquattro gradini, equamente suddivisi da una parte e dall’altra, un giorno in cui la luce del sole, da occidente, tagliava diagonalmente l’aria, trascinando con sé, nel suo percorso sempre più basso, le ombre grigio scuro dei passanti, io, che avevo vent’anni e volevo fare lo scrittore, mi sono accorto di quel signore quando ci trovammo a una trentina di gradini di distanza l’uno dall’altro. Venti metri circa. L’uomo indossava un completo di lino azzurro, una camicia bianca senza cravatta, scarpe nere. I risvolti della giacca erano molto larghi, come le punte del collo della camicia e come non se ne vedono più in giro, anche se verso la metà degli anni ottanta poteva ancora capitare, specie addosso a un signore di sessant’anni. Le braccia dietro la schiena, saliva lento, la figura eretta.
Trenta gradini, venti metri circa. Questione di secondi. Secondi di cui mi sono impossessato completamente, con precisione, con decisione, senza tralasciare il minimo dettaglio. Era Italo Calvino. Dal taschino della camicia si intravedeva un astuccio per occhiali. Nero. I miei da sole, invece, mi permisero di mantenere fino alla fine gli occhi su di lui senza che se ne accorgesse. Il viso aveva l’espressione che sempre gli avevo visto in fotografia e qualche volta in televisione: le labbra ferme in una posizione di quasi sorriso, e lo sguardo di chi sembra sempre da un’altra parte, ma non solo o, forse, non proprio così. Si trattò di pochi secondi in tutto. Soltanto quando ho svoltato a destra per entrare all’imbarcadero, ho alzato gli occhi verso il ponte, ma lui era sparito. Certo, vale solo per me, questo aneddoto, ma chissà quanti sono i veneziani che hanno ricordi importanti legati al nostro ponte in legno. Precario, certo, provvisorio da sempre, eppure così connaturato al paesaggio veneziano, al suo territorio. E al nostro immaginario, anche, quello più intimo, quello che nessuno, mai, vorrebbe veder sparire.