Italia come la Grecia
Questo mio articolo è uscito sul Corriere del Veneto di venerdì 15 luglio 2011.
All’edicola, ieri mattina, una signora veneziana, una pensionata, ha guardato la prima pagina del giornale che avevo appena comprato e mi ha chiesto: “Ma davvero adesso dobbiamo pagare il ticket a ogni visita? A ogni ricetta?”. Per fortuna, là di fronte stava attraccando il vaporetto e spero che la signora non abbia preso la mia fuga come un gesto scortese. Ma poi, che cosa avrei potuto risponderle? Forse, mi sarebbe venuto da dirle che ce lo meritiamo, che del resto, questa classe politica ce la siamo voluta noi. Cosa possiamo pretendere? E magari si trattasse solo del ticket, avrei voluto dirle. Avrei pronunciato parole tipo Milanese, o Romano, messe lì non certo a designare differenti cittadinanze, ma nomi da mettere come risposta alle sue lamentele, alle sue paure. Poi, in vaporetto, ho pensato ad altre parole. Ascoltate da me, questa volta, pochi giorni fa. Parole dalla Grecia. Le immagini e le notizie che da tempo arrivano da laggiù, fanno male. Ma il nostro immaginario, forse anche attraverso uno sforzo volontario, le tiene distanti. Per la gran parte di noi la Grecia è sinonimo di vacanza, di mare. La Grecia, nel nostro immaginario, oggi, è un’isoletta di pescatori sperduta nel punto più estremo del Mediterraneo. Lontana, lontanissima. Ci sforziamo a intenderla in questo modo per un unico motivo: la Grecia ci fa paura. Una decina di giorni fa mi sono deciso, e ho chiamato al telefono il mio editore greco. Uno degli intellettuali greci più brillanti. Anche chiedergli il più ovvio dei come va, è stato imbarazzante. Difficile, disarmante, ascoltare tutto il resto. E il resto non era nemmeno – lui stesso lo ha sottolineato – lo stipendio che non narriva più da mesi, ma il senso di disperazione e di violenza che si sente per strada. Una violenza diversa da quella che possiamo immaginare o conoscere. Una violenza disperata, collettiva. Ascoltavo questo signore di sessant’anni raccontarmi con la voce rotta lo sfacelo del suo paese. Una voce rassegnata, sconfitta, con un tono privo di alcun acuto, nessuna nota che lasciasse trasparire un minimo di speranza, alcun accenno di futuro. Una voce buia, spenta. Lo ascoltavo, soffrivo e, al contempo, mi dicevo che no, che da noi non potrà mai essere così. Lo ascoltavo, e temo poi di aver replicato con una voce piena di pena, ma di quella pena che arriva da un po’ più in su. Da chi crede – o vuole credere – di essere al di sopra di ciò che stava ascoltando. Immune, addirittura. Una sfumatura di quella voce dalla Grecia, l’ho percepita nella signora all’edicola, ieri mattina e dentro di me, subito dopo. E so bene, ancor più del giorno di quella telefonata, che neanche noi, ormai, possiamo ritenerci immuni dallo sgomento che percepivo nella voce del mio amico da Atene. Che il terrore che egli prova per il suo paese, è anche il nostro. Perché la Grecia sta qui, accanto a noi, sperduti insieme, e nemmeno da soli, in un angolo profondo del Mediterraneo, Europa 2011. No, non è il titolo di un film.