Dedicato agli studenti in corteo

Dal romanzo Cosa cambia (Marsilio, 2007).

Così, quel giorno, il corteo arrivò all’angolo con corso Torino. In mezzo alla strada c’erano dei cassonetti che bruciavano. Mi avvicinai lento ai focolai, poco convinto, li ripresi in primi piani che non raccontavano nulla, Giorgio pochi passi dietro di me, a un certo punto mi disse attento! Sentii delle urla. Un coro di urla, a essere precisi. Mi girai, si girò e li vedemmo sbucare da un angolo. Gente in divisa, blu scura, nera, non sapevo, non vedevo bene, forse a causa di un’angoscia che montava dentro, inevitabile, naturale. Li vedevo urlare. Non so se li ho anche sentiti. Ricordo la scena, non il suono. Sbattevano i manganelli contro gli scudi in plexiglas. Un rumore sordo, raggelante. Sembravano l’equivalente delle marcette dei black bloc. Ma facevano più paura, questi. Feci durare l’inquadratura pochi secondi, con i brividi che intanto arrivavano fino alle viscere. Che vuoi che facciano?, mi chiesi indietreggiando. Non abbiamo fatto niente noi, mi dissi aumentando i passi all’indietro. Sono la nostra sicurezza loro, no, pensai spostandomi dal loro campo visivo. Così mi hanno insegnato fin da piccolo, mi ripetei senza sapere cosa fare. E, da piccolo, ero convinto che le forze dell’ordine fossero state inventate apposta per me, per difendermi, per proteggere solo me. E io li ho sempre rispettati per questo. Non mi è mai successo nulla, ma io sapevo che loro erano lì, pronti per me. Certo, crescendo, qualche dubbio mi è venuto. Sul finire degli anni settanta, per esempio. Ma erano soltanto dubbi o poco più. E poi, insomma, io non ho mai fatto niente in vita mia per avere a che fare con loro. Neanche adesso, adesso che li vedevo venire avanti in quel modo che metteva paura, con i loro scudi, i manganelli, le maschere antigas con i filtri nuovi, i fucili per i candelotti, gli occhi stralunati, neanche adesso che avanzavano urlando verso di noi, verso gente qualunque, verso giornalisti, parlamentari, scrittori, verso un prete e verso Giorgio che aveva appena vent’anni ed era anche lui lì per raccontare con la sua videocamera, per raccontare e manifestare. Perché ci attaccano?, mi chiedevo immobilizzato. Per quale motivo dovrei scappare?, urlavo a me stesso guardandomi intorno. Ma venivano avanti, loro. Avanzavano con una corsetta che sembrava quella di un film idiota che però metteva i brividi. Poi vidi alcuni spianare i lanciarazzi all’altezza dei miei occhi. Sentii qualcuno dietro di me gridare. Via, via! Sparano! Sparano! E allora scappai. Non li guardai più perché non erano più la mia – la nostra – sicurezza. Erano il nemico, adesso. E avevano deciso loro di esserlo, tendendo un vero e proprio agguato al corteo e io corsi via, come tutti, senza capire il perché. Correvo e sentivo degli spari sordi, vedevo delle scie bianche passarmi accanto. Pochi secondi e non respiravo più. A uno davanti a me cadde di tasca il telefonino. Continuavamo a correre, scappare, e io non so come ma riuscii a raccoglierlo e lui riuscì anche a dirmi grazie e io a rispondergli figurati. Grazie, figurati e da dietro quelli ci sparavano addosso, cazzo. La videocamera era rimasta accesa, inquadrava ombre e piedi e righe della mezzeria sull’asfalto, la coprii col tappo, forse pensando di proteggere almeno lei dai gas urticanti. Urlai Giorgio! Giorgio! un’infinità di volte, non so quante volte, i colpi si susseguivano, a decine, i loro, di candelotti, i miei, di tosse, uno accanto a me vomitò, tolsi di nuovo il tappo alla videocamera, non ci vedevo e inquadravo verso di loro, era lei adesso il mio occhio, stavano di nuovo prendendo la mira. La abbassai subito. Come se stessi riponendo le armi. Come ad arrendermi. Ricominciai a correre tenendola in mano. Accesa. E si vedono allora dei sandali scuri corrermi accanto. Poi le mie scarpe marroni. Non si vede niente di Giorgio, invece. Non sapevo dove fosse finito. Ma stava di certo facendo ciò che facevamo tutti. Andavamo tutti in cerca dell’aria, come Angela quella notte. Ma qui una bomboletta spray non bastava. Mi accorsi che Giorgio era lì, stava correndo accanto a me. Gli urlai di non fregarsi gli occhi, per quanto si potesse urlare con la gola che bruciava, gli occhi in fiamme e la pelle – collo, mani, faccia – che sembrava diventata brace. Qualcuno urlò bastardi. Rallentammo per pochi secondi ma subito dovemmo riprendere a correre. Invidiavo Giorgio, che era giovane, un atleta. Aveva un passo leggero, nonostante tutto. Mi accorsi però di correre veloce anch’io. Passi pesanti ma veloci. Doveva essere il terrore. La paura, credo. Avevo un bisogno atroce di aria. La gola sembrava restringersi e otturare il respiro. Urlai qualcosa di incomprensibile, non si capisce bene riascoltandolo dalla videocamera, ma lo dissi al taccuino di Giorgio che spuntava dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Lui fece solo in tempo a dire meglio se torniamo, ma io non sapevo dove tornare e si sentì un’esplosione vicino a noi. Poi una voce femminile, accento napoletano, mi disse di non avere paura e di correre. Corsi. Di nuovo. Più forte che potevo. La videocamera inquadrò un paio di pantaloni beige con delle scarpe da ginnastica grigie. Si vede un sacchetto nero che mi finisce tra i piedi. Una felpa azzurra con la faccia del Che in blu, legata in vita, che sventola assecondando la corsa e dentro la nuvola dei gas. Le Adidas di Giorgio, bianche. Si sentono respiri in affanno. Soprattutto il mio. Colpi di tosse. Tanti. Una bottiglia di vetro scalciata, di birra, credo. Delle urla. Rallentai cercando un modo per riprendere fiato. Non entrava niente. Non respiravo più. Cercai Giorgio con gli occhi. Ma era come se non ce li avessi più, io, gli occhi. Avrei voluto urlargli che non respiravo più. Ma non c’era, Giorgio. Non lo vedevo, anche se tenere aperti gli occhi, usarli per guardare era in quel momento meno difficile solo di respirare. Mi rimisi a correre. Inquadrai una maglietta gialla e dei jeans. Si vedono delle Superga in tela blu. Le strisce bianche di un passaggio pedonale. Si sente me che cerco l’aria. Arrivò un altro colpo. Corsi verso destra. Si vedono delle scarpe da ginnastica. Di quelle alte con dentro dei tubolari bianchi e poi la gamba che finisce su, dentro dei bermuda verde militare. Delle Adidas azzurre, senza calzini. Sandali blu, pantaloni beige. Gente che si chiamava. Franco, Franco! Pantaloni arancioni e bianchi di un infermiere. Sirene. Un attimo di pausa. Il mio respiro che stava per esplodere. E poi di nuovo colpi di fucile e corsa. Senz’aria. Mi ritrovai dentro a un tunnel, direzione Marassi. Ma mica lo sapevo, quella volta, anni fa, che era direzione Marassi, quella, e ancora oggi, mentre ripercorro quella fuga sulla mappa, mica lo so come ci arrivai, dentro a quel tunnel, lungo una cinquantina di metri e che sembrava non finire mai. Là dentro i suoni erano più compressi. Assumevano un tono più duro. Rimbombavano inquietanti. Intorno si sentiva gente che urlava. Corri! Corri! Scappa! François! François! Le scie dei lacrimogeni correvano più veloci di noi. Ci passavano accanto e ci superavano. Finivano non so dove ma a qualcuno prima o poi andranno addosso, pensavo terrorizzato. Colpiranno alla schiena, mi dicevo. Davanti a me si vede uno correre vestito in giacca beige e camicia. Avrei voluto chiedergli aiuto. Non mi riuscì. Quale aiuto avrebbe potuto darmi, poi? Aveva lo stesso mio problema. Lo stesso problema di tutti. Mi fermai per tossire e sputare. Si vede la mia telecamera abbassarsi verso l’asfalto, di nuovo, un asfalto illuminato di giallo dalle luci e offuscato dai gas. Mi si sente urlare adesso. Un urlo soffocato. Una specie di rantolo acuto. Lo ricordo bene, quell’urlo. Di rabbia. Una rabbia atroce. Sarei stato capace di tutto in quel momento. Avrei fatto qualunque cosa a quelli che mi stavano inseguendo e sparando. Qualunque cosa a quelli che mi stavano squarciando i polmoni, occludendo i bronchi, cartavetrando la gola, arroventando la pelle, infiammando gli occhi. Poi, finalmente, quando tutto sembrava non avere più fine, la videocamera inquadra il sole. Ero fuori.

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