Venezia calcio, la fine
Questo mio articolo, dal Corriere del Veneto del 12 luglio 2009
L’ultimo pomeriggio, alla sede del Venezia calcio, con i giocatori in attesa degli stipendi, i dipendenti di un futuro, i tifosi di una speranza. Incroci di telefonate, bip di sms, un tam tam continuo sul niente, sugli infiniti condizionali sciorinati dai Poletti in questi mesi infiniti di promesse, di menzogne, di prese in giro. E la rassegnazione che monta, la rabbia anche, per chi era arrivato lì da lontano fin dalle nove del mattino, convocato per l’atto finale di una sceneggiatura pazzesca. Il tempo che passa, scandendo un conto alla rovescia che nessuno qua dentro ha il potere di bloccare. Guardi i trofei del Venezia, in bacheca, accanto al libro del centenario, e sai che il conto alla rovescia rischia di spazzare via tutto questo. A turno, tutti danno un’occhiata dentro a quei vetri, consapevoli, ormai, di essere stati gli ultimi grandi protagonisti di quella storia lunga cent’anni. Il Venezia si sta spegnendo, grazie alla sventatezza, alla sfrontatezza di gente che solo il silenzio e gli sguardi di chi sta qua dentro sanno definire al meglio. Eppure, questa fine rende ancora più grande, ancora più nobile, ancora più pura l’impresa che la squadra del Venezia aveva compiuto sul campo, salvando la squadra dalla retrocessione. Lo sguardo di tutti i giocatori, di Michele Serena, di Andrea Seno, di Leandro Casagrande e di tutti gli altri qua dentro, nella sede del Tronchetto, è uno sguardo rassegnato ma fiero, di chi sa di aver fatto più di quanto era nelle loro possibilità. Sono altri, ad aver fallito. Dentro a queste stanze, l’ultimo pomeriggio del calcio a Venezia, ci sono uomini veri, che per mesi hanno lavorato senza stipendio per raggiungere comunque un obiettivo che era dovuto alla maglia che indossavano, che era dovuto a una città che non finirà di ringraziarli, di abbracciarli. L’ultimo saluto al calcio a Venezia, lo hanno dato questi ragazzi, che non vestiranno più, loro malgrado, i colori arancioneroverdi, ma che hanno saputo indossarli come nessun altro mai. Nelle stanze della sede, l’ultimo pomeriggio del Venezia, è stata scritta una delle pagine più buie e però più alte della storia del calcio di questa città. Questi uomini, dallo sguardo rassegnato e fiero, incredulo e nobile, hanno dato a tutti una lezione di vita. Ci hanno insegnato che il calcio di oggi è semplicemente un mestiere e non un privilegio. Più nessuna differenza fra il campo e la fabbrica. Poi le lacrime, disperate e rabbiose del capitano, Mattia Collauto, rimasto dentro la nave che affondava, a differenza di chi si è tenuto ben alla larga, nemmeno il coraggio di venire a dire in faccia a tutti come stanno le cose, e magari chiedere scusa. Le lacrime di Paolo Poggi, che ha già un altro mestiere eppure era lì, insieme ai suoi compagni a condividere più di altri, lui, di Sant’Elena, un attaccamento che è come il respiro, che è la vita. Le lacrime di Andrea Maistrello, il dodicesimo uomo in campo, il simbolo di ogni tifoso, lui che c’è sempre, come tanti altri, accorsi qui, tifosi che non hanno mai mollato e che anche adesso, dimostrano la loro saggezza. Poi però dopo le lacrime, dopo lo sfogo, tutti a domandarsi come ripartire, come fare. Perché oggi muore il calcio a Venezia, ucciso da gente incapace e cinica, e però è pronto a rinascere subito. Un’impiegata poco prima di chiudere definitivamente i battenti, porta in salvo la Coppa Italia che il Venezia ha vinto nel 1941. Che non ci portino via pure questa, dice. E allora, ecco, si può ripartire da lì. Fuori, Mattia Collauto chiede a Massimo Lotti, il portiere, se lui ci sta a ripartire di nuovo. Da quale serie, poco importa. Io ci sono, risponde. Poi chiama al telefono Paolo Favaretto, l’allenatore che fu il secondo di Nello Di Costanzo. Io ci sono, risponde. Ecco, questi sono gli uomini del nuovo Venezia. Come lo chiamiamo, chiede qualcuno. Unione Calcio Venezia, dice il capitano. Perché no, replica il papà di Paolo Poggi, venuto a consolare tutti. Mancano solo i soldi, come sempre. Ma a Venezia c’è già la voglia di ritornare a giocare a pallone sull’acqua. A pallone però, non a calcio.