Veneto razzista
Mi arriva un sms, da un mio amico scrittore che sta a Roma: “Leggete Repubblica! Fate qualcosa!”. Lì per lì non capisco e chiedo: “Cosa?”. “Ci sono tre pagine sul Veneto razzista”. E mi ritrovo a rispondergli che è così, sì. Questa terra, la mia terra, è oggi il territorio più intollerante, verbalmente violento, del nostro paese. Gli rispondo e rabbrividisco nel rendermi conto che si tratta di una constatazione agghiacciante. Come se anch’io non potessi far altro che prenderne atto, allargare le braccia e voltarmi dall’altra parte. Poi non è proprio così, lo so. Di questa deriva scrivo da anni. In un libro – Andate e ritorni – ne tracciavo i presupposti, gli accenni evidenti già sul finire degli anni novanta. E ne ho scritto anche qui, di recente. Solo che quel che ho provato ieri, leggendo quel sms, è stato un misto di impotenza e rassegnazione. Come se non ci fosse più spazio, in me, per l’indignazione, la rabbia. Come se quei sentimenti, messi sotto assedio dalla propaganda cialtrona, dalla disinformazione demagogica, avessero alzato bandiera bianca. Ho letto il reportage di Fabrizio Ravelli, su Repubblica, impeccabile, vero. Ho letto lo smarrimento sconcertato di Ilvo Diamanti, che non ha più chiavi di lettura per interpretare questa orrida ondata di intolleranza. La tristezza dello storico Franzina, che pensa di andarsene, fuggire da questo Veneto irriconoscibile, inaccettabile. Cosa che da tempo, pur vivendo nell’isola felice di Venezia, lontana dalle turpitudini del profondo Veneto, sto meditando anch’io. Prima, però, credo di avere il dovere morale di raccontarlo, il Veneto razzista.