Genova e la memoria

Questo articolo esce oggi sul Corriere Veneto.

Nel marchingegno politico e mediatico, Genova, quella del G8, quella del luglio 2001, è come una clessidra la cui sabbia della chiarezza, della giustizia, della memoria, scende giù sempre troppo in fretta, lasciando in basso, nelle menti della gente, cumuli di ovvietà, comode semplificazioni anche se, a volte, quando la passi al setaccio, fra ecquella sabbia, resta però qualche vago cenno di chiarezza (la trasmissione Blu notte di Carlo Lucarelli, per esempio). Poi, ultimamente, puntuale, arriva sempre una mano a girarla, quella clessidra, a far ripartire ciò che alla fine non è mai approfondimento, mai luce piena, tantomeno un bagliore di verità. Puoi provarci ogni volta, a usare il setaccio, ma è una fatica immane, quando, dall’altra parte, l’esercizio messo in atto è quello sempre molto in voga, dalle nostre parti: l’insabbiamento. Invece, oggi, ciò che è successo lungo le strade di Genova in quei giorni dovrebbe essere ormai storia, sei anni dopo, e ogni episodio accaduto allora, dovrebbe ormai esser stato riconosciuto, catalogato, chiarito, giudicato. Invece Genova 2001 dà fastidio. Da una parte infastidisce i politici che non vogliono una commissione d’inchiesta, “per non dover giudicare l’operato delle forze dell’ordine”, parole di un ministro. Dall’altra complica la quotidianità di certi intellettuali che anziché provare a cercare di approfondire, di studiare, di capire, svendono la propria intelligenza al mercato dei luoghi comuni. Facile, troppo facile semplificare Genova, accomunare tutti in due fazioni, da una parte i cattivi che hanno messo a ferro e fuoco la città, dall’altra i buoni, a cui ogni tanto scappava la mano, ché si sa, in certi casi capita. La legittima difesa di cui si parlò in quei giorni – però, ahimé, rovesciata – e che fu il mantello steso a nascondere la macelleria messicana, che fu dappertutto, e non solo alla Diaz e a Bolzaneto. C’ero, io, in quei giorni, a Genova. Ero lì per raccontare. E ho visto e subìto cose che mai avrei immaginato. Quell’esperienza è diventata un romanzo, Cosa cambia, edito da Marsilio, un titolo che, alla luce dei fatti di questi giorni, porta con sé tutta la rassegnazione cui potrebbe alludere. Sei anni di lavoro, quel libro, come se non me ne fossi mai andato, io, da Genova, rimasto lì, lungo le strade, su e giù per i carrugi, a cercare non la verità – non è compito dei romanzieri, questo – ma un sentimento. Il sentimento di Genova. Quel sentimento che ora è necessario ritrovare, perché il tasto cancella-memoria ha sempre il dito di qualcuno, giudice, politico o intellettuale che sia, premuto sopra. La memoria pare essere un ostacolo, ultimamente. E la memoria di Genova, invece, è e deve essere patrimonio di tutti coloro che ci sono stati. Una memoria collettiva da condividere con chi non c’era. Con chi, ed è la gente qualunque che incontro alle presentazioni del libro in giro per l’Italia, ha davvero voglia di capire, di approfondire, di ricordare. Una memoria però talmente tremenda, talmente ingombrante, da avere spinto molti di coloro che sono stati a Genova, a rimuoverla, a voltarle, per un motivo o per l’altro, le spalle e scapparei via. E invece, adesso, c’è una sola cosa da fare, reimpossessarci in fretta del sentimento di Genova. Difenderlo dai banalizzatori di massa. Tenerlo vivo, ché la memoria è preziosa e potrebbe essere, questa volta, sinonimo di verità.

Lascia un commento