Roger Federer, il più grande

Questo articolo è uscito su La Lettura del Corriere della Sera del 2 gennaio 2023. Lo pubblico oggi, giorno della finale di Wimbledon, vinta da Alcaraz. La matematica dirà che il migliore è stato Djokovic, ma il più grande…

Non mi pentirò mai di aver trascorso giorni interi della mia vita, settimane forse, a guardar giocare Roger Federer. E tutti quei giorni, settimane forse, non sono comunque serviti a risolvere l’enigma: come puoi raccontarlo, a parole, il rovescio di Roger Federer? Speravo che col tempo, poco a poco, partita dopo partita, torneo dopo torneo, le parole adatte sarebbero saltate fuori. Scaturite non necessariamente durante una finale di Wimbledon o del Roland Garros, ma magari nel corso di un semplice palleggio nella fase di riscaldamento, o in un video di lui che, un paio di anni fa, gioca come un cittadino qualunque – mettendosi in coda come tutti – nei campi comunali di Basilea, la sua città natale. Niente. Mai trovate quelle parole, perché nonostante io sia convinto che tutto sia narrabile, tutto riproducibile attraverso la scrittura, so che per il rovescio di Roger Federer ancora è presto. Anche se adesso, forse, potrebbe essere più facile, esserci più tempo per provarci: il 2023 sarà il primo anno, dal luglio 1998, senza Roger Federer in campo. Perché poi non si tratta solo del rovescio. Quel colpo è l’apice di tutta una serie di gesti assoluti e irripetibili che messi insieme, in un’armonia delicata e formidabile, sono il ritratto fedele del Tennis, quello con la T maiuscola, capace di affascinare chiunque, anche chi non ci ha mai capito niente di come funziona fra tutte quelle righe, tutti quei rettangoli divisi a metà da una rete, la pallina che va e viene e disegna degli otto orizzontali, degli infiniti a ripetizione (“Fisso come loro il campo vuoto, dove la palla avrà tracciato un otto orizzontale tra un giocatore e l’altro, come il segno dell’infinito. Si tratta di tramare contro quel movimento perpetuo con lo stesso colpo con cui bisogna ricucirlo.”, dice l’io narrante de Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice, mentre è seduto su una sedia della tribuna del Centre Court), perché poi una partita di tennis potrebbe davvero durare all’infinito, non fosse che siamo umani e alla fine uno dei due cede, sempre, inevitabilmente. La partita perfetta, però, sarebbe proprio la partita che non finisce mai, in cui nessuno dei due giocatori riesce a staccare l’altro dei due punti necessari, e noi a vederli invecchiare là sul campo, di match-point annullato in match-point annullato, e intanto pure noi, davanti alla tv, diventiamo vecchi insieme a loro.

Nel 1993, nel mio primo romanzo, Terra rossa, ho provato a raccontare Björn Borg, ne ho fatto il punto di riferimento dell’io narrante, per via della sua anomalia, della sua teorica inadeguatezza rispetto al tennis. Talmente fuori luogo, il suo gioco, inadatto, che ha fatto in modo che fosse il tennis stesso ad adeguarsi a lui. Un genio, ma più inquadrabile, classificabile. “Il mio gioco d’attesa costringe l’avversario a correre dei rischi. Quando lo fa, il calcolo delle probabilità gioca a mio favore”. Riassumeva così il suo tennis, Björn Borg. Il tennis di Roger Federer, invece, non puoi riassumerlo, racchiuderlo in una frase.

Lo scrittore Joseph Conrad si chiedeva “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. La mia finestra in quel caso era il display del tablet o lo schermo della tv, incantato là davanti, a guardare i gesti bianchi, come li chiamava Gianni Clerici. Come spiegare allora che io me ne stavo lì ad ammirare i gesti di Roger Federer, per cercare di trasformarli in parole, ché alla fine nemmeno David Foster Wallace ci era riuscito del tutto? E cercare di guardarlo a ogni costo, poi, in tutti i modi possibili: la finale di Wimbledon 2009, contro Andy Roddick, equilibratissima, vista dentro a un’auto in corsa, col segnale che andava e veniva, oppure quella del 2017, contro Marin Cilic, che ho visto stando accovacciato dietro a una siepe, à Saint-Nazaire, in Francia, l’unico punto dove si riusciva a intercettare il segnale wifi di una delle case là intorno. Ma se dovessi incominciare, un giorno, a raccontare Roger Federer, inizierei forse da quella signora, in piedi sulla tribuna del Centre Court, inquadrata durante la finale del 2019 contro Novak Djokovic, dopo l’ace che ha portato Roger Federer, in vantaggio per 8-7 nel quinto set, sul 40-15. La signora fa uno con il dito e dice “One more”. È in lacrime dall’emozione, dalla gioia. Vorrai mica che Roger Federer fallisca due match-point nella finale di Wimbledon, quando ha 39 anni e sa perfettamente che quella è l’ultima occasione. One more, dice la signora. Ancora uno di quei due match-point che invece Federer fallirà. Ma li fallirà a modo suo, in maniera immensa, perdendo 13-12 al tie-break del quinto set. Federer, come ogni vero artista ha una sensibilità accentuata, ha momenti di debolezza assoluta, perché se ha vinto 103 finali, è altrettanto vero che ne ha perse 54, fra cui 11 del Grande Slam. Ne avesse vinte anche solo la metà, pure i maniaci delle statistiche tacerebbero, impegnati a sommare e sottrarre, con il bilancino, la calcolatrice. I numeri non mentono, dicono. Certo, come no. Invece non ci sono Nadal o Djokovic che tengano, né ci sarà nessun Alcaraz, in futuro. Potranno vincerne anche quaranta a testa di tornei dello Slam, i matematici dello sport dimostreranno attraverso algoritmi e calcoli astrusi chi è stato il migliore, potranno tentarle tutte, ma ce ne sarà soltanto uno di inarrivabile e irripetibile, Mister Tennis, magari non il migliore, stando ai numeri, ma di sicuro il più grande di sempre. Il più grande, in campo e fuori.

Ho sempre pensato che le parabole vadano vissute fino in fondo, fino a quando chi le ha attraversate, chi ne è stato protagonista, non decide che adesso basta. Penso proprio a Björn Borg, che si ritirò a soli 26 anni, da numero 1, ma la sua parabola non era compiuta, non era finita. La interruppe troppo in fretta, e per questo poi tornò, quasi dieci anni dopo, a completare la curva, a far combaciare la fase ascendente a quella discendente della sua carriera (che però fu un precipizio, a trentacinque anni, il tennis nel frattempo cambiato del tutto). Mettere il punto, dire adesso basta, è la scelta più personale e intima e dolorosa del percorso agonistico di un atleta. Per questo nessuno può permettersi di metterla in discussione. Con Roger Federer è successo fin da prima che lui rendesse ufficiale il suo ritiro. Ognuno a dire quando e come avrebbe dovuto smettere: prima del torneo di, dopo la finale del. Ma lui, il più grande, qualche giorno dopo l’annuncio del ritiro, nella partita d’addio alla Laver Cup, ha ammutolito i critici e incantato il mondo. Con semplicità assoluta ha messo in scena l’addio più commovente, intenso e spettacolare di sempre, attorniato da tutti i campioni del momento, accanto al suo rivale eterno, Rafa Nadal, più emozionato e commosso di lui. Le loro lacrime, i due amici rivali che si tengono per mano: una delle immagini più belle e autentiche di un 2022 altrimenti tragico e doloroso. Mai finale di carriera è stato tanto emozionante come quello di Roger Federer. Anche se noi, quelli che sono stati in campo con lui per giorni interi della nostra vita, settimane forse, noi lo sapevamo. Sapevamo bene che la partita dei quarti di finale a Wimbledon, il 7 luglio 2021, contro Hubert Hurkacz, lo sapevamo che sarebbe stata l’ultima che avremmo giocato insieme a lui nel “suo” torneo. Quel 6-0 subito da Roger Federer nel terzo set, resterà per sempre inciso come un tatuaggio indesiderato sulla nostra pelle, anche se erano i quarti di finale e allora ha smesso quando era ancora tra i migliori otto al mondo. Otto, l’infinito, di nuovo. Perché è e sarà infinito, Roger Federer.