Pelé a Jesolo
Oggi, 3 gennaio 2023, si celebrano a San Paolo i funerali di Pelé. Sabato 31 dicembre 2022, sulla Nuova Venezia, ho scritto di quella volta a Jesolo. .
Pelé è morto, e per la generazione di mio padre e la mia è come se con lui se ne fosse andato anche il mondiale del 1970 in Messico. Perché per tanti di noi, Pelé è stato soprattutto, o soltanto, la finale contro l’Italia. Per il resto, solo tanti spezzoni, quelli che oggi si chiamano highlights, gol segnati con la maglia del Santos, mostrati qua e là. Immagini in bianco e nero, tipo quelle del 19 novembre 1969, quando aveva segnato il millesimo gol della sua carriera, a 29 anni, al Maracanã di Rio, e tutti i telegiornali del mondo, giorni dopo, lo avevano celebrato. Il millesimo gol di Pelé, lo avremmo tutti immaginato come minimo in rovesciata, e invece fu un banalissimo rigore, tirato alla perfezione, certo, ma pur sempre un rigore. Poi successe qualcosa di altrettanto memorabile, e anche se la partita contro il Vasco da Gama non era finita, il pubblico, che dal fischio dell’arbitro fino al gol non aveva smesso di intonare il coro «Pelé Pelé», entrò in campo e portò in trionfo il suo campione. Solo spezzoni, insomma, tanti, ma partite intere, quelle mai, soltanto ai mondiali.
Era il giugno del 1970, e prima c’era stata la semifinale, Italia-Germania 4-3. La partita del secolo, quello scorso. Se si potesse mettere una partita dentro a un museo, lì dentro ci finirebbe Italia-Germania 4-3. Ma non il video dell’incontro, né i cimeli dei giocatori o il pallone. No, proprio la partita intera, quella vera, da giocare e rigiocare sempre identica, con Rivera, Beckembauer, Riva, Overath e tutti gli altri in carne e ossa, giovani in eterno, perpetuati per sempre nel momento di quel 17 giugno 1970. Erano gli anni in cui potevi caricare un’utilitaria e partire per le ferie. La villeggiatura, si chiamava, un mese al mare e spesso uno anche in montagna. Anni in cui un impiegato della Shell – mio padre – poteva portare per un mese a Jesolo la propria famiglia (una famiglia classica, genitori e due figli). Erano gli anni del Corrierino dei Piccoli, che aveva regalato ai suoi lettori una cartolina con le facce dei giocatori della Nazionale disegnate sopra e l’indirizzo del ritiro azzurro in Messico prestampato sul retro. Suggerivano di mandarla al proprio giocatore preferito, ma era così bella che a Gianni Rivera non la spedii mai, e la conservo ancora. Erano anche gli anni di “dopo carosello tutti a nanna”. E io, che di anni ne avevo nove, mica ero riuscito a convincerli, i miei, di andarla a vedere da qualche parte, Italia-Germania, che sarebbe iniziata a mezzanotte. Niente, tutti a letto su in camera. Del resto, era il 1970, e non erano molti gli hotel o i bar con la televisione, ma gli altri clienti si erano sparpagliati nei dintorni e io sapevo benissimo dove fosse il televisore più vicino. In camera, sono riuscito a nascondere la radiolina a transistor che ascoltavamo in spiaggia sotto al cuscino del piano superiore del letto a castello. Non chiusi occhio per tutti i centoventi minuti. Quando, dopo le due di notte, sotto alla nostra finestra iniziarono i festeggiamenti a colpi di clacson, anche mio padre si pentì di non averla guardata, quella che sarebbe diventata la partita del secolo. Gli azzurri si erano assicurati la finale, e anch’io, un po’ per il pentimento di mio padre, un po’ perché Italia-Brasile si sarebbe giocata il 21 giugno alle 20 italiane. I giorni successivi servirono a scegliere dove vederla. Individuammo un bar nei pressi di Piazza Mazzini. La sera della finale arrivammo per tempo, però era già pieno. È stata mia madre ad avere l’idea. La macchina era parcheggiata di muso davanti al bar, a una decina di metri dal televisore piazzato su una mensola in alto. Noi quattro in macchina, una Giulia Alfa Romeo 1300 TI color indaco, e la radio accesa, radiocronaca di Enrico Ameri. È strano, perché il televisore era piccolo, le immagini sgranate e io già occhialuto, eppure, ricordo di averlo visto benissimo e a colori, quel numero 10 con la maglietta giallo oro, bordi verdi, saltare quasi un metro più su di Tarcisio Burgnich, soprannominato La Roccia, maglietta azzurra numero 2. Un gol da O Rei, il primo per il Brasile di altri tre, che sarebbero arrivati nel secondo tempo. Ricordo bene anche che nessuno di noi quattro ci restò così male, alla fine, perché eravamo consapevoli di aver visto il miglior giocatore del mondo vincere con merito la Coppa Rimet, anche se non mi andavano giù i miseri sei minuti finali concessi a Gianni Rivera dal ct Ferruccio Valcareggi. Ma oggi so che non sarebbe cambiato granché con lui in campo. Aveva vinto il Brasile, guidato dal giocatore più forte di sempre, e noi lo avevamo ammirato, anche se da lontano, anche se in bianco e nero, anche se saremmo tornati a vederlo a spezzoni.
Una leggenda, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, che conferma qualcosa che avrei capito anni dopo. La sua leggenda conferma quanto forti siano le parole, spesso molto più forti delle immagini, più evocative, perché la grandezza di O Rei ci è arrivata quasi esclusivamente attraverso la narrazione, orale e scritta. Ed è stato il modo forse più poetico e insieme reale di ammirarlo, di essere stati testimoni, comunque diretti, della storia di Pelé.