Ciao Daniele

Foto di Alessandro Rizzardini

Daniele girati che Alessandro ci fa la foto. Ma lui era assorto a sfogliare il libro, Sentimenti sovversivi, che gli avevo appena regalato. Eravamo alla Libreria Marco Polo, a San Lio, dicembre 2010. C’era una firma copie, con tè e panettone. Daniele Del Giudice passò insieme a Mara Rumiz. Si fermarono un bel po’, festeggiammo il Natale, il mio libro e la ristampa del suo Nel museo di Reims. Pochi mesi dopo, nel 2011, ho iniziato a scrivere un nuovo libro, che ancora non ho finito. Dentro a quel libro racconto come posso una storia che Daniele ha scritto molto meglio di me, ma che non ha mai pubblicato. Oggi che se n’è andato, la pubblico qui. Non mi piace parlare dei lavori in corso, anche se questo è “il” lavoro in corso. Non è la storia che ha scritto lui, bellissima, finita chissà dove e che lessi più di trent’anni fa. È il ricordo della mia lettura. Il modo più adatto che ho di salutarti, caro Daniele, amico mio, maestro di tanti.

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Un conto però era che Daniele non le scrivesse, quelle storie, come fa Epstein in Atlante occidentale, un altro era non pubblicarle. Come quel racconto lungo, che Daniele mi fece leggere a fine anni ottanta. È sulla Ferrari, mi aveva detto mentre mi allungava la cartellina con dentro i fogli dattiloscritti. La sua passione per i motori, per la tecnica, lui che da giovane truccava i motorini dopo avere letto Kafka e Shakespeare, e qualcuno ha scritto in giro che di formazione lui era ingegnere meccanico, tanto sono precisi e dettagliati i suoi testi, che si tratti di meccanica, di fisica, di cartografia. Ingegnere meccanico: le risate che si faceva, quando lo leggeva. Passandomi i fogli del racconto aveva aggiunto che avrei dovuto leggerlo subito. Si era allontanato lasciandomi lì, nel suo studio, in piedi, vicino alla finestra. Non c’era molto tempo, avevamo appuntamento con degli amici per l’aperitivo. Hai venti minuti, mi disse sorridendo. Lessi in fretta, in piedi, appoggiato alla parete, quel bellissimo racconto di un tizio in viaggio di lavoro, l’auto che va in panne in una notte di nebbia fitta nella pianura padana. Apre il cofano, prova a darci un’occhiata, poi, disperato, una torcia in mano, si mette in cammino. Arriva davanti a un grande cancello, ma non si vede di cosa, al buio e con quella nebbia. C’è un campanello, lo suona, vede due torce un po’ più grandi della sua avvicinarsi al di là delle sbarre, due custodi, pensa. Gli dicono di non preoccuparsi, che ci penseranno loro, uno sparisce e ritorna con una cassetta degli attrezzi, escono dal cancello, lo seguono. Mi piacerebbe ricordarlo a memoria, il racconto sulla Ferrari, almeno delle parti, ma non sono sicuro nemmeno della trama. Che poi, come fai a riassumerli, i testi di Daniele Del Giudice? Li banalizzi, li semplifichi, si azzera del tutto la forza evocativa della sua scrittura purissima. Alla macchina i due cominciano ad armeggiare con disinvoltura, una dimestichezza che non ti aspetteresti mai da due guardiani. Parlano fra loro usando termini precisi, intervallati da Ti ricordi quella volta a Le Mans, oppure Nella macchina di Jacky Ickx, o E quando l’ingegner Ferrari. Sì, rispose uno di loro allo sguardo sbalordito dell’automobilista in panne. Siamo due meccanici di Formula Uno in pensione. Aveva suonato al cancello della Ferrari, quella notte. La sua macchina si era fermata a poche centinaia di metri dalla sede di Maranello, solo che il simbolo del Cavallino Rampante e ogni altro segno riconoscibile erano nascosti dalla nebbia. Il protagonista (non ricordo più se ci fosse un io narrante o un narratore) se ne rimase lì, a guardare la riparazione della sua macchina da parte di quei due vecchi meccanici dalle mani ancora agili, abili, ascoltò le loro storie su Stirling Moss e Niki Lauda e non avrebbe più voluto andarsene via, avrebbe voluto che la nebbia non si alzasse più, che la sua macchina non ripartisse, avrebbe voluto stare il più a lungo possibile dentro quella parentesi umida ma piena di storie e io restare ancora dentro a quel racconto letto troppo in fretta.