Papà arriva in Italia

Livio Ferrucci, mio padre, era nato il 18 settembre 1934 ad Alessandria d’Egitto. È morto un mese fa, il 17 maggio 2021. Ha avuto una vita piena e per tanti versi avventurosa. Qualche anno fa ho raccontato il suo arrivo in Italia a bordo di un piroscafo. Il racconto è uscito nella raccolta “La Venezia che vorrei”, pubblicato nel 2018 da Helvetia editrice, curato da Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo. Mi piacerebbe che fra qualche anno, leggendolo, i miei nipoti Brando Livio e Morgan capissero che tutto è cominciato grazie a un piroscafo, a un viaggio, all’accoglienza.

Come un piroscafo

Si chiamava Calitea ed era una motonave della Lloyd Triestino, costruita nei cantieri navali di Monfalcone e varata nel 1933, l’anno prima della nascita di mio padre. Una motonave che mi piace però definire un piroscafo, per dare meglio l’idea della sua forma, che è quella che da bambini disegnavamo a scuola, con una poppa e una prua unite da una leggera curva e al centro un camino con il fumo che si attorciglia verso il cielo. Non le costruiscono più così, le navi: oggi le fanno assomigliare sempre più a delle auto, ma i bambini, loro, insistono nonostante tutto a disegnarle come si deve, col camino, la prua, la poppa, le bandierine, gli oblò, eccetera eccetera.

Elsa Molco, Livio, Antonio e Arnaldo Ferrucci al porto di Alessandria, in partenza per l’Italia

Il viaggio inaugurale della Calitea, nell’ottobre del 1933, partì da Trieste e toccò i porti di Venezia, Brindisi, Pireo, Rodi, fino ad Alessandria d’Egitto. Era lunga 102 metri, larga 15 e poteva portare 80 passeggeri in prima classe, 34 in seconda classe, 38 in classe turistica. Nel 1940, la motonave fu requisita dalla marina militare italiana e l’11 dicembre 1941 venne silurata dal sommergibile britannico Talisman a circa 40 miglia a ponente dell’isola Sapientza. La nave affondò in tre minuti, morirono 155 persone e, per quanto ne so, quella nave sta ancora là sotto, in fondo al mare della Grecia. Questo è quel che si trova in rete, digitando “motonave Calitea Trieste”. La Storia,quella dei libri, delle enciclopedie. Poi ci sono quelle con la esse minuscola, di storie. Storie di marinai e passeggeri, di esseri umani con nomi e cognomi, e lì si deve lavorare di memoria, di memorie, andando a guardare indietro, cercare e ricercare, cosa che nessuno pare più voler fare, preferendo vivere alla giornata, nel presente assoluto e però senza ricordi, perciò vuoto, un qui e ora scandito da slogan, demagogie, e propagande. Ci si adegua alle bugie, oggi. Come se la Storia e le nostre storie più intime fossero degli impicci, degli ostacoli da ignorare o, peggio, da cancellare, e non costruiscano, invece, l’insieme di ciò che siamo, la nostra vita.

Nel 1939 – nessuno ricorda di preciso quale fosse la data e la mia ricerca in rete non ha, ahimè, potuto aiutarmi – mio padre, Livio, suo fratello Arnaldo, e i loro genitori, Elsa e Antonio, sono costretti a lasciare l’Egitto, dove sono nati e cresciuti tutti e quattro, espulsi a causa della guerra imminente: all’epoca l’Egitto è un protettorato inglese, e loro sono ancora cittadini italiani. Si imbarcano – non so in quale delle tre classi – sulla Calitea da Alessandria condestinazione Venezia. Doveva comunque essere inverno, perché mio padre e mio zio ricordano che al loro sbarco, dopo essersi tolti le scarpe, hanno corso a piedi nudi su una strana sabbia bianca che aveva la bizzarra caratteristica di essere gelida. Questo episodio li accomuna curiosamente a un altro alessandrino di nascita ma anche lui italiano, che anni prima fece lo stesso percorso e la stessa corsa a piedi nudi sulla sabbia bianca e gelida e ne scrisse una memorabile poesia. Era Giuseppe Ungaretti. Poesia che scoprii all’università e ricordo lo stupore di mio padre, quando gliela lessi. Sono sicuro che fu per il contatto con quella strana sabbia gelida che poi, a quarantadue anni, è diventato maestro di sci, forse il primo, probabilmente unico, maestro di sci “egiziano”. Nella ricerca in rete, ho trovato due pubblicità della Lloyd Adriatico, due manifesti di quegli anni che annunciavano la linea turistica Adriatico, Grecia, Egitto, fatta dal Calitea, viaggio quattordicinale. Dev’essere lo stesso itinerario fatto da mio padre e dalla sua famiglia nel 1939. C’è una foto che li ritrae tutti e quattro, su uno dei ponti della nave. È sgranata, color seppia, di quella sgranatura che non ha nulla a che vedere con questo termine quando lo utilizziamo per le foto digitali. Non si tratta di pixel, ma di quell’opacità tipica delle foto d’epoca, che ne scandisce la provenienza, lontana nel tempo e, in questo caso, anche nello spazio. Nella foto, tutti e quattro guardano in basso, verso la banchina, dov’è piazzato il fotografo. E chissà chi era, il fotografo, se un parente, un amico, un professionista. Nessuno di loro sorride. Soltanto mia nonna – che non ho mai conosciuto, come mio nonno, del resto – accenna a qualcosa che è difficile, però, definire sorriso. Mio padre e mio zio sono visibilmente sorretti da mio nonno, troppo piccoli per riuscire da soli a sporgersi dal parapetto. È l’unica foto loro scattata in Egitto. O, almeno, è l’unica rimasta. Fino a qualche anno fa, per vederla dovevo andare in camera dei miei, dove sta da sempre. Oggi, ce l’ho dentro al telefono e posso guardarla quando voglio. E provare a raccontarla, anche.

Insieme a un’altra foto della Calitea, questa volta trovata in rete, presa dall’alto, da un aereo o da un elicottero e viene da chiedersi se fosse possibile, a quel tempo, anche per una compagnia come la Lloyd, affittare un aereo o un elicottero, per scattare una foto pubblicitaria. Oggi, basterebbe un drone da pochi euro. Sotto la foto, la didascalia La Calitea a Venezia verso la fine degli anni Trenta, ed è facile per me immaginare che si trattasse proprio dell’arrivo a Venezia di mio padre e della sua famiglia. E ce ne sono altre, di foto, in quel sito. Gli interni della motonave, del piroscafo Calitea. Due sole, in realtà: quello che doveva essere il bar, tavolini con poltroncine di legno e sedili imbottiti, forse rivestiti di velluto. In primo piano un tavolino – sistemato davanti alla statua, forse in bronzo, di una donna che sembra lavarsi la schiena con una spugna – con quattro sedie attorno, e posso immaginarli facilmente i quattro della mia famiglia seduti lì, a sorseggiare caffè e non so cosa invece i figli, o vederli più tardi dentro la sala da pranzo dell’altra foto, poltroncine dai bordi dorati, schienali e sedute in vimini, calici di cristallo, tovaglie bianche e un piccolo vaso di fiori al centro del tavolo, bere un caffè o cenare durante la rotta Alessandria Venezia, che oggi si percorre in una sessantina di ore e all’epoca immagino molto di più, visti gli scali intermedi. Chissà quanto resistevano, mio padre e mio zio, bambini, seduti a tavola, composti come immagino esigessero i miei sconosciuti nonni.

La Calitea in arrivo a Venezia

Nonostante le eleganti sale del Calitea, nonostante, immagino, la comodità delle cabine, non credo che i miei nonni fossero contenti di doversene andare. Non in quel modo. Resta dunque solo la foto di una famiglia che non sembra affatto felice del viaggio che sta per fare. Un viaggio definitivo: il paese in cui erano nati e cresciuti che diventa all’improvviso il nemico, la terra dove sei nato, hai studiato, hai lavorato, che ti diventa ostile (pare avessero trascorso la giornata precedente la partenza in un campo di concentramento inglese, che comunque nulla avevano a che vedere con quelli nazisti. Prigionieri, comunque). Cacciati da quella stessa terra che aveva accolto il mio bisnonno, decenni prima, arrivato dalla Trieste austroungarica. A loro è stato consentito di andarsene, ad altri no, finiti nei campi di concentramento inglesi, e rimasti ben più che una sola giornata.

Non avrebbero mai più messo piede in Egitto, i quattro della foto, salvo mio padre, che è tornato ad Alessandria con mio fratello, una decina di anni fa, scoprendo aspetti della famiglia a lui stesso ignoti: entrambi i miei nonni sono morti giovani, non dando ai loro figli (cui si era aggiunta, in Italia, mia zia) il tempo di fare tutte quelle domande sulle proprie origini che ognuno di noi, a un certo punto, pone a raffica ai suoi genitori. Così, la storia della mia famiglia paterna è piena di quesiti, di vuoti, di misteri, forse.

In un giorno del 1939, dunque, si sono imbarcati per un viaggio apparentemente turistico che però assomigliava molto, nelle motivazioni, nelle necessità, nelle dinamiche, ai viaggi dei profughi di oggi, che non hanno però l’opportunità di navigare su piroscafi o motonavi, che non pagano un biglietto per destinazioni prestabilite dove comunque, come nel caso dei miei,c’è il tuo paese d’origine ad accoglierti, nulla a che vedere. La famiglia di mio padre sbarcò a Venezia, e Venezia li accolse nel migliore dei modi, nonostante il fascismo che, un anno prima, aveva promulgato le leggi razziali, nonostante la guerra imminente, perché Venezia è sempre stata così: aperta, accogliente, solidale. E con tutti, non soltanto con chi aveva il passaporto italiano. Oggi, anche Venezia, come il resto dell’Italia, sta inesorabilmente perdendo questa formidabile e però naturalissima caratteristica. La sta perdendo a causa di politiche assurde. Si sta incarognendo, come il resto del paese. Quella che era una unicità a livello sociale, sta svanendo. Le cause: politiche locali (con lo smantellamento recente, da parte dei populisti al governo della città, di politiche sociali e di accoglienza che erano all’avanguardia in Europa) e politiche nazionali “sovraniste” e xenofobe. E, soprattutto, a causa di cittadini che si sentono finalmente autorizzati dalle istituzioni ad altrettanta beceraggine, pronta a trasformarsi in violenza verbale prima, fisica poi. Perché se parli di continuo all’intestino della gente, la gente finirà per ragionarci, con l’intestino. Un’inversione di rotta che rischia di fare perdere a Venezia la sua vera e storica identità. Venezia xenofoba e chiusa in se stessa è un controsenso, un’idiozia, è inaccettabile. I miei arrivarono in un luogo del tutto sconosciuto e nel giro di poco tempo si rifecero una vita, attraversando pressoché indenni le difficoltà della seconda guerra mondiale, grazie a Venezia e ai veneziani, della città storica e della terraferma.

Iopenso sempre a quella foto di famiglia, ogni volta che viene annunciato l’arrivo di un barcone a Lampedusa o a Pozzallo, o ovunque, sulle nostre coste o anche – peggio – a ogni annuncio di naufragio in quel cimitero di corpi e di anime che è diventato il Mediterraneo. C’è un legame evidente, fra quel viaggio a ritroso del 1939 e quelli definitivi e spesso tragici di oggi. Credo che se ciascuno facesse lo sforzo di guardare indietro, alle proprie vicende di famiglia, al proprio passato più o meno remoto, ci accorgeremmo tutti di essere dei profughi. Profughi e immigrati, nel mio caso, perché anche il mio nonno materno arrivò a Venezia dalle campagne della Toscana per venire a lavorare alla Sava di Porto Marghera (costretto a un certo punto a iscriversi al partito fascista per non perdere il posto di lavoro, cruciale per una famiglia con tre figlie piccole e mia madre, bambina, che però si è sempre rifiutata di fare il saluto romano, a scuola e in ogni altra occasione). Così, sono figlio di profughi e di immigrati, ed è proprio questa la ricchezza della mia famiglia, una famiglia cosmopolita, nomade. Perché sempre, in ogni epoca, la gente si è spostata, per scelta, per necessità, per costrizione. Siamo tutti profughi, lo sappiamo e facciamo finta di niente. Abbiamo una memoria fragile, scarsa. Dimentichiamo o, forse, fingiamo di dimenticare. Rimuoviamo vicende che ci riguardano, per essere liberi di ignorare che oggi si sta semplicemente ripetendo quel che è successo alle nostre famiglie, e siccome le nostre famiglie sono nomi, facce, biografie, sentimenti, cancellarli ci permette di rendere astratti, fantasmatici i migranti di oggi, anonimi, privi di storie, tutti uguali, tutti ascrivibili alla categoria “clandestini” e cioè gente indesiderata, invadente. Da respingere. Con la forza se necessario. Nessuno ha respinto i miei. Mai ho sentito che Venezia abbia rifiutato qualcuno, da ovunque venisse. Perché, poi, non siamo più capaci a viaggiare, non siamo più attratti dall’altrove, vicino o lontano che sia. Credo che questa nostra epoca possaessere considerata l’epoca in cui il benessere ti spinge paradossalmente alla stanzialità (non possiamo certo chiamare viaggi gli spostamenti, le vacanzette più o meno low cost di qualche giorno, né le gitarelle che qualcuno osa chiamare crociere), un’epoca che ti offre la possibilità di ricreare ogni situazione nei luoghi in cui vivi (o, viceversa, di ricreare in “vacanza” le stesse dinamiche di casa tua), aumentando così paradossalmente il senso non di appartenenza – che dovrebbe comunque esserci estraneo – ma di proprietà, non a caso uno degli slogan preferiti dai partiti xenofobi europei è “padroni a casa nostra”. O quello, becero, usato spesso qui, dalle nostre parti, “Prima gli italiani” o “Prima i veneti” (e adesso mi viene in mente Pateh Sabally che, a 22 anni, un gelido pomeriggio del febbraio 2017, è venuto a togliersi la vita a Venezia, annegandosi nel Canal Grande, ma questa sarebbe un’altra storia, o forse no). “Prima i veneti”, che parole stupide. Perché, come dice Antonio Tabucchi nelle parole che ho messo in exergo a questo testo, dovremmo ricordarci di continuo che su questa terra siamo solo di passaggio e che il nostro stare, il nostro risiedere, è una sorta di affitto che ci viene concesso dal destino. Ecco, forse a mancarci è proprio questo: l’altrove, cambiare luoghi, paesaggi, viaggiare, conoscere, costruire rapporti. Poco importa se per scelta, o per obbligo, o per necessità. Fino a qualche decennio fa era una condizione che ci riguardava quasi tutti, partire era una necessità ricorrente. Di sopravvivenza, spesso. Poi, il benessere, la possibilità di avere ciascuno la propria casetta, il proprio lavoro, le proprie piccole certezze, ci ha fatto mettere radici. Ci ha fatto credere di essere a casa nostra. E a casa tua inviti chi vuoi tu. E allora che ci viene a fare tutta questa gente anonima, priva di facce e di storie a casa nostra, nella piccola Europa, nelle nostre città sempre più strette, dove crediamo che lo spazio ci appartenga?

Verrebbe quasi da augurarsi che la crisi che sembra non avere fine, non finisca per davvero e ci costringa allora a rimetterci tutti in marcia, come sta succedendo – e per fortuna, sottolineo io, consapevole delle critiche patriottiche che mi arriveranno – a tanti giovani italiani, spinti a cercare altri altrove dove stare e dove essere, sempre e comunque, di passaggio. Andare altrove, per imparare di nuovo a fare ciò che è naturale e doveroso: accogliere, come ha sempre saputo fare, nei secoli, Venezia.

Questo testo, tradotto da Claudette Krynk, era uscito in una forma ridotta nella raccolta L’aventure géographique, AA.VV., a cura di Patrick Deville, Meet, Saint-Nazaire,, 2016.