Lo stadio sull’acqua

In occasione del ritorno della finale di playoff di serie B, Venezia-Cittadella, per la promozione in seri A, ho scritto questo articolo per La Nuova Venezia, uscito venerdì 28 maggio 2021.

C’è uno stadio che se ne sta appoggiato sull’acqua. Sopra, ci gioca la squadra che nell’immaginario collettivo globale tocca corde che nessun’altra al mondo, perché ha il nome più evocativo fra tutte, e sappiamo bene che cosa accade nello sguardo di chiunque quando, in giro per il pianeta, diciamo di abitare a Venezia. Una squadra con quel nome non poteva che giocare in uno stadio che è un’isola, a cui accedi da tre ponti che attraversano uno dei tanti canali della città. Una squadra che da ieri è ritornata in serie A. Lo stadio si chiama Pier Luigi Penzo, ed è stato costruito nel 1913 a Sant’Elena, sulla coda del pesce, come il titolo del libro di Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce.

Ce n’è un altro di libro, che ha raccontato uno dei momenti più belli e gloriosi della squadra che gioca al Penzo. Si intitola Giocando a pallone sull’acqua, l’ho scritto più di vent’anni fa e celebrava il primo campionato in serie A del Venezia dopo tre decenni, il campionato dei tiri mancini di Alvaro Recoba e del gol di tacco di Pippo Maniero, del gol di Fabiano Ballarin alla Roma, della salvezza insperata con l’allenatore Walter Novellino, potenzialmente esonerato a metà campionato, salvato dai propri giocatori e artefice di una rimonta da record. A quell’epoca nessuno pensava a cosa sarebbe stato il Venezia nel 2021, ma tutti sapevano dove oggi avrebbe giocato: nel nuovo stadio in terraferma. Ne erano tutti certi, favorevoli e contrari. “Vogliamo lo stadio nuovo” era uno dei cori ricorrenti cantato dai tifosi. Invece, nel 2021, Maleh e Maenpaa, Taugourdeau e Aramu, Forte e Di Mariano, giocano ancora a pallone sull’acqua, calcano i loro tacchetti sullo storico manto erboso del Pier Luigi Penzo. Storico perché è lo stadio più vecchio d’Italia, insieme a quello di Genova. Storico perché è l’unico stadio che galleggia su una laguna. Storico perché una notte tiepida di ottobre del 1993 la Juventus di Roberto Baggio ci ha perso 4-3 e i boati a ogni gol si sentivano in tutta la città. Storico perché ci hanno giocato Valentino Mazzola e Alvaro Recoba, e i veneziani Paolo Poggi, Mattia Collauto, Nicola Marangon. Oggi, ci gioca il veneziano di Castello, Riccardo Bocalon.

C’è uno stadio che se ne sta appoggiato sull’acqua. Sopra, ci gioca la squadra che nell’immaginario collettivo globale tocca corde che nessun’altra al mondo, perché ha il nome più evocativo fra tutte, e sappiamo bene che cosa accade nello sguardo di chiunque quando, in giro per il pianeta, diciamo di abitare a Venezia. Una squadra con quel nome non poteva che giocare in uno stadio che è un’isola, a cui accedi da tre ponti che attraversano uno dei tanti canali della città. Una squadra che da ieri è ritornata in serie A. Lo stadio si chiama Pier Luigi Penzo, ed è stato costruito nel 1913 a Sant’Elena, sulla coda del pesce, come il titolo del libro di Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce.

Il Penzo, che per arrivarci a piedi da Piazzale Roma non devi fare altro che attraversare la città più bella del mondo, semplicemente, ma che se ci vieni coi mezzi pubblici, lo raggiungi comunque via acqua. Il Penzo, sopravvissuto al passare dei decenni anni, sopravvissuto alle guerre e a tutti quei “presidenti” che calavano da queste parti prima di tutto perché annusavano il business del nuovo stadio, salvo poi tagliare la corda quando si rendevano conto che per motivi vari quel business non sarebbe mai andato a buon fine. Il vecchio Penzo, rifugio rassicurante ai fallimenti del nuovo stadio dai mille progetti, uno più faraonico dell’altro. Tutti puntualmente irrealizzabili. Il Penzo, che sopravviverà al Covid e alla conseguente crisi mondiale e che sarà ancora la casa del Venezia, e questa volta di nuovo in serie A.

Una domenica di quell’anno magico, stavo salendo in tribuna dietro a Julio Velasco, il coach che ha fatto vincere all’Italia il primo titolo mondiale di pallavolo. Era diventato dirigente della Lazio e il giorno della partita contro il Venezia, quando è sbucato in tribuna e davanti a lui lo stadio si è aperto in tutta la sua interezza ha esclamato: “Ma è un salotto!”. Lo ha detto con un tono di stupore e ammirazione, e quella spontaneità non ha fatto che confermare la nostra assuefazione a ciò che conosciamo, che è consueto e non sappiamo più guardare. Sì, ha ragione Julio Velasco, ho pensato quando mi sono affacciato dopo di lui, il Penzo è un salotto, con vista sulla laguna. Per alcuni troppo scomodo, per altri lo stimolo a trascorrere una domenica a Venezia.

Il Penzo, che nel calcio moderno, con le squadre che arrivano allo stadio dentro a pullman ultra tecnologici, seguiti in diretta dai droni delle tv, costringe tutti ad arrivare via acqua, ti obbliga a guardarti intorno, a stupirti come quel giorno Julio Velasco. E mentre ogni altro stadio è blindatissimo, i calciatori protetti da strutture impenetrabili, qui, devi per forza uscire sulla riva anche se sei Messi o Cristiano Ronaldo, e se la barca è in ritardo, come una volta successe con la Fiorentina, può capitarti di vedere Batistuta e compagni appoggiati al muro color ocra dello stadio mangiarsi il panino del dopo gara (finita quella volta 4-1 per il Venezia).

Insomma, una cosa è chiara: al Penzo non si gioca al calcio business. Quando le squadre arrivano qui è come se si aprisse una parentesi, come se tutti, protagonisti e tifosi, tornassero ai campetti di periferia o all’oratorio. Si torna bambini quando vieni a Sant’Elena, perché è lo stadio del Venezia e di Venezia, la città dello stupore. Il Penzo è l’esatto opposto della famigerata e fallimentare Super League. Al Penzo si gioca e si giocherà sempre e solo a pallone. Sull’acqua, anche e soprattutto in serie A.