Avere vent’anni
Ieri, 10 febbraio 2021, sono intervenuto sulla Nuova Venezia.
“Avevo vent’anni non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Toccherà a chi oggi ha quell’età rimpossessarsi, un giorno, di questo celebre incipit del romanzo Aden Arabie di Paul Nizan, pubblicato nel 1931. Sì, perché avere vent’anni ai tempi del Covid non è facile, e lascerà dei segni indelebili. Se ne parla di continuo, da un anno, delle conseguenze della pandemia sulle generazioni più giovani. Didattica, amori, amicizie, tutto vissuto a distanza, attraverso una grammatica dell’esistenza e degli affetti, del tutto nuova, scombussolata. Nessuno era preparato, tantomeno meno coloro che le esperienze stavano iniziando a viverle, a costruirle. Vent’anni, va da sé, arrivano una volta soltanto e saltare tappe ritenute fin qui irrinunciabili, diventa definitivo. Poi però, a pensarci bene, non è facile avere qualunque età, oggi, ai tempi del Covid, e per alcune di queste età, il virus è definitivo, fatale. Per questo fa rabbia vedere le immagini dello scorso week end nelle zone della movida. Perché al di là di tutte le motivazioni e giustificazioni, diventa difficile comprendere come mai, scattata l’ora della zona gialla, scatti al contempo l’ora dell’insensatezza. Sia chiaro, a tutti manca la socialità di prima, anche alle generazioni adulte, dei vari “anta”. Nessuno può essere contento di vivere come stiamo vivendo. Però, dopo un anno di pandemia, risulta difficile tollerare gli assurdi assembramenti dello scorso week end. Può davvero essere così improcrastinabile il rito dello spritz condiviso insieme a centinaia d’altri e celebrato sempre solo negli stessi luoghi? Può sul serio essere il primo e più importante atto da compiere non appena reso possibile?
Forse stiamo sbagliando noi, noi che per mestiere ci occupiamo di parole. Forse non sappiamo raccontarla, questa pandemia. Forse non serve più riempire lettori e spettatori solo di spurie cifre quotidiane, di decreti governativi, di disquisizioni scientifiche semplificate. Dovremmo, forse, trovare un modo diverso di raccontarla, quest’epoca tragica. Evidentemente non siamo in grado di trasmetterla. Di farla sentire, soprattutto. Perché, se secondo alcuni stiamo psicologicamente vivendo le stesse condizioni del dopoguerra, vero è che poi in giro non vediamo case bombardate, gente sfollata, non ci sono rifugi antiaerei e nessuna carestia. Il Covid è invisibile, così come lo sono le terapie intensive. E poi ci sono i negazionismi, sempre più diffusi, oasi idiote e però assai consolatorie cui eventualmente aggrapparsi. Usciamo con la mascherina perché ci tocca (c’è chi da mesi usa sempre e solo la stessa) ma non appena possibile, molti fanno come se niente sia successo, tutto come prima, e il tanto ripetuto “ne usciremo diversi” dobbiamo per il momento chiosarlo con “sì, però forse peggiori di prima”. Almeno finché non troveremo una nuova forma di racconto. Sperando basti.