11 settembre
Detto che è doveroso ricordare oggi anche l’11 settembre 1973, quando in Cile il Presidente Salvador Allende si suicidò, gesto estremo davanti al golpe fascista del generale Pinochet, tutti si domandano dove fossero l’11 settembre 2001. Io ero al Lido, e il giorno dopo scrissi questo per La Nuova Venezia. Il testo, poi, uscì nel libro Andate e ritorni, scorribande a nordest (Amos, 2003), che raccoglieva i miei reportage in vespa in giro per il Veneto. (Il libro è esaurito da anni).
Lido di Venezia
12 settembre 2001
The day after, un altro film, dopo quello, allucinante, di ieri. Il giorno dopo. La mattina presto, senza avere quasi dormito. O dormito male, con un occhio al cuscino e l’altro alla Cnn. Fuori, la freschezza di queste mattine al Lido di Venezia che hanno lo stesso clima che c’è a New York. Che c’era fino a ieri. Ha ragione Baricco: continuare a ripetere “sembra un film” significa voler nascondere la paura. Esorcizzarla. E in giro per le strade, il giorno dopo, di un film parlano un po’ tutti. Ne parlano consapevoli che quel “sembra” sta a significare qualcosa che non è. Fermo la vespa accanto all’edicola più grande dell’isola. C’è un via vai continuo. Non le code, quelle mai, in Italia, per la lettura, ma le pile si assottigliano in fretta. Pagano e tutti – tutti – hanno poi un momento come di souplesse. Si fermano nel punto in cui stanno qualche secondo e danno un’occhiata veloce a titoli e occhiello. Guardano le foto. Nelle facce l’incredulità non ha più un’espressione. È come se quei titoli nero su bianco confermassero definitivamente che non era uno scherzo di Orson Welles. Niente Indipendence day o Blade runner. Nessun film.
Alla fermata degli autobus i giornali sono spalancati. Fermo la vespa là vicino e apro il mio sopra al manubrio. I pochi che non ce l’hanno tirano il collo dentro le notizie di chi gli sta accanto. È un modo per iniziare una conversazione: «Scusi – fa uno allungato verso la spalla del suo vicino – hanno scritto delle bombe in Afghanistan?». Poco più in là una signora chiede quasi a se stessa cosa succederà adesso. Le panchine lungo il viale sembrano un’emeroteca all’aperto. Due pensionati, seduti lì chissà da quanto, si scambiano i giornali e sospirano senza dire una parola. Riparto. A un’altra edicola un signore in panama bianco e giacca blu esclama: «Un uomo, un capo, una nazione». Ironia verso Bush? La dittatura come unico antidoto al terrorismo? La frase mi fa venire i brividi e lui se ne va prima che possa chiedergli cosa vuol dire. Meglio così. Una signora cerca di tenere il telefonino incollato all’orecchio premendo con la spalla. Con una mano tiene i giornali e con l’altra tenta di tirare fuori i soldi dal portafoglio. Nel frattempo, un po’ agitata, dice: «No, il loro albergo per fortuna era in un’altra parte di New York». Un ragazzo dice a un altro: «Hai mai visto o sentito parlare tu di un italiano o di un europeo che si fa saltare in aria o si lancia con l’aereo? Che fa il kamikaze?». Già, penso rimettendo in moto, difficile immaginare qualcuno disposto ad abbandonare telefonino e BMW e immolarsi per la causa. Qualunque causa. Nessuno di noi è nato e cresciuto in territori occupati. Non abbiamo alcuna idea di quello che si deve provare nel dire ” sono nato e cresciuto nei territori occupati”. Rendetevene conto. Provate a ripeterlo a voi stessi e mentre lo ripetete immaginateveli, i territori occupati. Vorrei dire queste cose al ragazzo. Nessuno di noi ha avuto la casa di pietra abbattuta dalle ruspe o da un missile entrato di notte dalla finestra che si è portato via casa e genitori, magari. Mi fermo davanti a un bar, mi siedo e una famiglia francese si siede al tavolo accanto. Leggono un giornale italiano e la madre traduce per il marito e il figlio. Poco più in là, come se niente fosse, uno legge la Gazzetta e commenta col vicino le sconfitte di Roma e Lazio in Coppa. «Ma non avevano detto che le avrebbero sospese?», dice il suo vicino. «Sarebbe stato meglio», esclama l’altro. Dentro al bar un signore parla tutto infervorato. «Ero a casa. Stavo guardando la tivù. A un certo punto vedo la sovrascritta “Attacco aereo alle Torri Gemelle di New York”. Attacco aereo? A New York? Sono rimasto a casa. Non sono andato al lavoro». Fuori, poco distante da me, passa una ragazza. Sta parlando al telefonino e all’interlocutore dice che a New York hanno saccheggiato negozi e supermercati. Guardo sul giornale, ma di una notizia del genere non trovo cenno. Forse è di stamattina, e io sono in giro da troppo ormai.
Man mano che passa il tempo, che l’ora di pranzo si avvicina, le chiacchiere della gente sembrano però spostarsi di qualche grado. Continuano a guardare i giornali propri o di chi gli sta vicino, ma poi parlano d’altro, come a voler spostare tutto in avanti, come se la quotidianità fosse un’aspirina per scacciare via questo cerchio alla testa, questo groppo in mezzo allo stomaco. Improvvisamente l’America che la tecnologia, la televisione, internet e il McDonald’s ci avevano portato qui, dietro l’angolo, improvvisamente viene ricollocata dalle nostre menti dove sta. Lontana, oltreoceano, un luogo – un logo, verrebbe da dire – “altro”. Diverso. Da buoni italiani, proviamo a lavarcene le mani. E allora quel film non sarà proprio un film, certo, ma ciò che è accaduto è completamente ‘mericano, alla Alberto Sordi, alla Carosone. Qualcosa di inaudito ed enorme che “solo laggiù” poteva accadere. Non da noi, no, sembra oggi volersi dire a tutti i costi, ma senza crederci, la gente.