A Bologna, il 2 agosto 2000

Nell’epoca del negazionismo, con le migliaia di deficienti in giro per il mondo convinti che il Covid sia una fantasia del potere (andate a dirlo, ripeto da tempo, a Bergamo, a Codogno, e andateci fisicamente, diteglielo in faccia e poi ne riparliamo, imbecilli), c’è altra gentaglia che ultimamente, quarant’anni dopo, cerca di attribuire la strage alla Stazione di Bologna a chi arriva da altrove, con quelle modalità ormai note e prevedibili. Oggi i migranti, ieri i palestinesi. Nell’epoca della riabilitazione esasperata del nazifascismo, si tenta di sovvertire la Storia. Sappia, questa gentaglia, che non riuscirà a farcela, tanto sono patetici i loro tentativi. E anche dovesse diventare maggioranza, la gentaglia, sappia che ci sono ancora un buon numero di giovani e meno giovani che sanno bene cosa è stata la Resistenza, e sono pronti a fare quel che hanno fatto i loro nonni e genitori, e che loro stessi continuano a fare ogni giorno: difendere con le parole e l’impegno la verità, la Storia, la libertà (quella vera, non quella millantata dai negazionisti).

L’1 agosto 2000, nel pomeriggio, sono andato alla Stazione di Bologna per scrivere questo breve reportage che uscì il giorno dopo sui quotidiani del Gruppo Espresso e credo anche sul manifesto. A un certo punto parlavo del paradosso dei depistaggi. Il paradosso, oggi, è che non si tratta più di un paradosso. Il depistaggio è una delle principali attività italiane.

Nella hall della Stazione di Bologna sono centinaia le schiene zainate e le rotelle che trascinano guardaroba estivi. Tutti pronti a partire per ogni dove. Doveva essere così anche quella mattina di venti anni fa. Solo che all’epoca gli zainetti non erano di moda e di mettere le rotelle alle valigie nessuno aveva ancora pensato.

Da fuori, dal primo binario, lo squarcio lasciato dalla bomba potrebbe sembrare il vezzo di un architetto bizzarro, non fosse per quella corona di alloro col nastro tricolore piazzata in mezzo sopra a un cavalletto. Da dentro, invece, dalla sala d’aspetto, altro che vezzo: la traccia lasciata dalla bomba, nera e scavata e transennata, là sotto ai nomi degli 85 morti – “vittime del terrorismo fascista” – non lascia scampo a nessuno, nemmeno a chi non ha voglia di guardare. E chi non sa non può non chiedere cosa sia quella roba. C’è un banco delle informazioni lì accanto. Hanno fatto bene a metterlo. Spero proprio siano in tanti, quelli che non sanno, a rivolgersi all’impiegato.

La mia generazione è cresciuta con la strage periodica. Come le olimpiadi o i mondiali. Bombe nelle piazze, sui treni, nelle banche e aerei buttati giù hanno scandito gli anni della nostra infanzia, adolescenza, giovinezza. Abbiamo scolpiti dentro nomi che significano attentato, terrorismo, morte. Banca dell’Agricoltura, Piazza della Loggia, Treno Italicus, Ustica e ne dimentico pure qualcuno (com’era quell’altro treno, forse Rapido 704?). Lo osservo dalla mia seggiolina, lo squarcio, ma quella parete spaccata in due non puoi far finta di non vederla. Un vecchio seduto a due passi dal segno della bomba mi guarda prendere appunti. Lui sa cosa sto facendo, cosa scrivo. Lo guardo anch’io ed è come se stessi guardando il Signor Memoria. Ma perché oggi i giovani lasciano agli altri, ai più anziani, il compito di ricordare? No dai, guarda là fuori, non lo vedi il ragazzo che indica alla ragazza il posto della bomba? Sì, il braccio che dice guarda è sfasato di qualche grado, più verso il McDonald’s o chi per lui, ma vedrai che gli sta parlando di quel giorno di vent’anni fa. Oppure guarda quest’altro giovane alto alto, zaino in spalla, che fa passare l’attesa camminando per la sala. Non lo vedi che sta fissando il buco da lontano? Vi si avvicina lentamente, occhi fissi. Quando vi arriva davanti volta la testa verso la lapide ma non si ferma e tira dritto, ricominciando il giro. Al secondo passaggio non si volterà nemmeno.

Insomma, ai ventenni di oggi McDonald’s e zainetti e a quelli di ieri consapevolezza e ideologia? No, troppo facile. Resta però il fatto che noi siamo cresciuti in mezzo alle stragi e, non avessimo avuto qualcuno in grado di insegnarci un minimo di senso critico, saremmo diventati grandi con l’idea che mettere delle bombe in mezzo alla gente non è un reato. Che nessuno sarebbe mai venuto in cerca di te se facevi saltare in aria l’Upim o la Standa. Tanto, avrebbero magari accusato gli anarchici, o comunque ci sarebbe stato qualcuno pronto a depistare le indagini. Per fortuna questo è un paradosso, e oggi sono qui, in questa stazione per ricordare. Per provare lo stesso dolore di quella mattina di vent’anni fa quando, al mare, arrivò la notizia. Però non so se è proprio lo stesso, il dolore. Mentre esco passo accanto a una voce femminile. Mi volto e vedo una giovane madre indicare al figlio di dieci, undici anni lo squarcio sulla parete. “Lo hanno lasciato perché la gente ricordi”, dice. Allora, qualcuno che ricorda e spiega c’è ancora.

Fuori, sul piazzale, parallela a quell’altra, c’è una lapide uguale. Davanti, nessuno. Me ne sto lì una ventina di minuti. Tutti tirano via dritto. Tranne una vecchina, piena di borse di plastica. Una clochard. Va a riposarsi sul bordo del vaso della pianta che c’è sotto. Chissà se si siede lì apposta o è solo un caso. Mi giro. Guardo l’orologio che fa le 10.25 da vent’anni. Già. Per me e chissà quanti altri, ogni volta che arrivo qui, a qualunque ora è sempre quell’ora. Saranno sempre le 10.25 del 2 di agosto del 1980, alla Stazione di Bologna. E dentro di noi. E non solo per via di quell’orologio.