Cronache dalla città vuota, e chiusa (3)

Ieri, 14 marzo 2020, il quotidiano francese Le Monde, in edicola anche oggi, ha pubblicato questa mia tribune, splendidamente tradotta da Lucie Geffroy (e grazie anche ai giornalisti Marc-Olivier Bherer, Jérôme Gautheret e Marc Semo), che prosegue il racconto di questi strani giorni, come diceva Franco Battiato. Pubblico qui la versione in italiano. Più sotto, la pagina del quotidiano.

Vi scrivo da una città vuota, la più bella del mondo, dicono, Venezia, ormai priva di turisti e con i residenti costretti in casa. Vi scrivo da un paese, l’Italia, chiuso per contagio, autoisolatosi dal resto del mondo nel tentativo di sconfiggere il Coronavirus, l’unico paese, a detta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad aver preso sul serio questa che è diventata una pandemia. Sembra passato un secolo da quando, il 23 febbraio, nel pieno del Carnevale veneziano ci siamo resi conto che il Coronavirus era arrivato anche qui. Siamo passati dalla maschera di Arlecchino alle mascherine da chirurgo. Dai coriandoli all’Amuchina. Da quel giorno, le nostre vite sono cambiate, dentro e fuori, nonostante ci fosse chi minimizzava. Tutti, tendevamo a minimizzare. A esorcizzare, forse. È poco più di un’influenza, dicevamo. Vite cambiate dentro, con quel sentimento di paura, o quantomeno di profonda preoccupazione, che c’è un po’ in tutti, anche nei più spavaldi. Cambiate fuori, nei gesti (nessuno si bacia o si abbraccia più), si sta tutti a debita distanza, nei pochi negozi rimasti aperti si entra a turno, e chi è costretto a uscire di casa evita il più possibile di prendere i mezzi pubblici. Stiamo vivendo qualcosa che fino a pochi giorni fa era inimmaginabile. Eppure ci siamo dentro, e in tanti, la maggior parte, ci siamo subito adeguati. Noi italiani non abbiamo mai avuto uno spiccato senso civico. A noi le cose bisogna imporle, soltanto allora le capiamo. E qui bisognerebbe fare qualche riferimento storico, ma meglio di no. Da cinque giorni l’Italia è chiusa in casa, anche se un po’ di quegli spavaldi ancora resiste e trasgredisce. È piena di contro, certo, questa situazione, ma ci sono anche un bel po’ di pro. Usciamo solo per fare la spesa. Non vediamo più né parenti né amici. Scarichiamo in un battibaleno le batterie di tablet e smartphone. Tutta la nostra vita sembra concentrarsi là dentro, sul web, e ogni tanto mi domando cosa succederebbe se in questi giorni la rete andasse in tilt. Però poi si sta in famiglia, tutti e a lungo. Chi ci era più abituato? I padri non costretti ad andare al lavoro che stanno con i figli. I figli a cui non sembra vero di poter giocare o di fare i compiti con entrambi i genitori.

Ho appena finito la prima lezione in videoconferenza del mio laboratorio di scrittura creativa all’università di Padova. Da queste parti le scuole sono chiuse da quel 23 febbraio e lo saranno almeno fino al 3 aprile, ma tutti sappiamo che la chiusura si protrarrà. Si fa lezione soltanto in questo modo, adesso, in Italia. L’aula è il display del tuo tablet, tu sei inquadrato con la tua libreria sullo sfondo (quale altro sfondo potrebbe avere uno scrittore? Ma che fatica a fare in modo che l’inquadratura fosse proprio lì) e gli studenti sono a casa loro, chi in cucina con i piatti da lavare sullo sfondo, o il letto sfatto della camera. È la casa a salvarci la vita. Quella che per molti non era altro che poco più di un dormitorio, il resto della giornata trascorso fuori, al lavoro, a scuola, in giro o all’università, è ritornata a essere ciò che era fino a qualche decennio fa, luogo protetto, rifugio, ancora di salvezza.

Noi veneziani abbiamo avuto più di una settimana per goderci una città mai vista, vuota di turisti, priva di inquinamento, senza il moto ondoso continuo provocato da taxi e imbarcazioni commerciali. Se riuscivi a non pensare quale fosse il motivo di tutto ciò, una meraviglia. Ora invece, il vuoto risuona sinistro, inquietante. Il problema sono certi imprenditori. E certi sindaci, come quello di Venezia, che è un imprenditore. Ha detto che le aziende non devono chiudere, che l’importante è produrre, che i politici non devono mettersi in quarantena. “Resto a casa se non servo. Se servo devo stare fra la gente”. E tanti, troppi suoi colleghi imprenditori veneti e lombardi (quelli che, sia chiaro, non producono beni di prima necessità, va sottolineato) la pensano come lui, pur avendo garanzia di ottenere aiuti e sostegno dallo Stato, pur potendo anticipare le ferie per due settimane ai propri dipendenti, se ne fregano e li costringono a raggiungere il posto di lavoro mettendo a serio repentaglio non solo la salute pubblica, ma anche lo stato d’animo degli impiegati. È in queste situazioni che si misura lo spessore di noi esseri umani.

Ai miei studenti di scrittura creativa ho chiesto di iniziare a tenere un diario. Tutti dovremmo farlo. Stiamo vivendo un momento drammatico, certo, e però storico. Ci siamo ritrovati dalla sera alla mattina dentro a una quotidianità diventata anomala, straniante, incomprensibile. Le nostre vite stravolte. Raccontatela, gli ho proposto, per voi stessi, anzitutto, e per chi magari fra qualche anno vi leggerà e avrà bisogno di capirli, i giorni lontani del Coronavirus. Ogni città sta mostrando in questi giorni la sua essenza, la sua e quella dei suoi cittadini. In molti luoghi scattano catene di solidarietà, nonostante il nostro scarso senso civico. Giovani che lasciano la spesa davanti alla porta di casa degli anziani, negozianti che ti portano la spesa a domicilio. E non parlo di medici e infermieri, ché ci vorrebbero pagine intere. Stiamo dentro ai nostri gusci, mentre da giorni a Venezia c’è un tempo e un clima primaverile, sole, tepore. L’aria è tersa, la laguna piatta, l’acqua è tornata limpida come non succedeva da secoli. E la spiaggia del Lido è a due passi. Guardare tutto questo dalle finestre di casa fa male, ma è il momento di usare la saggezza e il buon senso e di seguire le istruzioni che ci dà la scienza, e allora adesso, dopo aver digitato queste righe sulla tastiera, corro a lavarmi le mani.