Felice
Mauro Biani è uno dei più efficaci narratori di quest’epoca. Le sue non sono affatto delle semplici vignette, sono racconti veri e propri, come se ogni tratto di un suo disegno fosse una parola, e alla fine, tratto dopo tratto, colore dopo colore, scaturisse la narrazione. Accade questo, ogni giorno. Qua e là, ha bisogno anche lui di qualche parola scritta, ma non si tratta di semplici didascalie: è ciò che serve a completare il racconto, a chiudere la storia. Storie pubblicate quotidianamente su Il manifesto, giornale su cui anch’io ho scritto per anni.
Da tempo volevo parlare di lui. Ho deciso di farlo oggi, da questo suo modo di salutare, di evocare, di rendere omaggio a Felice Gimondi. Perché quelli più o meno della mia età l’hanno avuta tutti, la biglia di Felice Gimondi, in spiaggia. Tiravi per le gambe uno, oppure tiravano te, e il culo sulla sabbia tracciava il percorso. E anche se io tifavo per Eddy Merckx (già da piccolo avevo una certa avversione per il patriottismo), mi piaceva Gimondi, quella sua faccia che sembrava scolpita, dove la fatica si disegnava netta rispetto ai lineamenti più rilassati del belga, che pareva sempre si stesse allenando in scioltezza, salvo poi salutare tutti e andare a vincere a ripetizione. Quando però era Gimondi a batterlo, io ero contento. Perché Merckx non sarebbe stato Merckx senza Gimondi. Così come Federer non sarebbe stato Federer senza Nadal, o Senna senza Prost.
Il Gimondi raccontato da Biani, oggi, è anche il mio Gimondi. Il Gimondi di tutti.