Mostar, 8/11/1993 – 29/11/2017

Dal luglio 1992 fino alla primavera 1998 ho lavorato a Tele Capodistria. Ho collaborato a varie trasmissioni, ma di una in particolare sono stato autore e regista per più di tre anni: Achtung baby!, un programma di cultura giovanile che, in un modo del tutto anti mainstream, ha raccontato la guerra nella ex Jugoslavia attraverso le immagini che arrivavano dai vari fronti, attraverso interviste a intellettuali, scrittori, giornalisti, registi, attraverso letture, canzoni, documenti. Lo scrittore Gianfranco Bettin è stato spesso ospite di quella trasmissione, in particolare quando, nel 1994, uscì da Feltrinelli il suo libro Sarajevo Maybe. Un libro importante e prezioso per capire quanto e cosa sia successo in quegli anni nella ex Jugoslavia. Un libro che ho avuto il piacere di ripubblicare nel 2015 nella collana digitale Collirio, che dirigo per l’editore Terraferma. Un libro sempre attuale, ma che oggi, dopo quanto accaduto ieri al Tribunale dell’Aja, lo è ancora di più. Per la copertina, Alessandra Crosato (editor di Terra Ferma) e io, abbiamo scelto, d’accordo con l’autore, il disegno del Ponte di Mostar, lo Stari Most. Le immagini della sua distruzione, l’8 novembre 1993, sono vive nella memoria di tanti, uno sfregio alla Storia, un crimine nei confronti dell’umanità intera, certo meno grave e cruento degli stermini di massa che caratterizzarono quella guerra, ma simbolo di una violenza cieca e inaudita che credevamo cancellata per sempre dal cuore dell’Europa. Credevamo, e non lo crediamo più, perché certe forme estreme, violente, criminali, sono più che mai evidenti anche in questi giorni, basti pensare al blitz nazifascista di Como, al consenso crescente di certi gruppuscoli di estrema destra. La distruzione del Ponte di Mostar resterà per sempre il simbolo dell’intolleranza becera e violenta, che vuole dividere, spaccare, che vuole imporre la supremazia di pochi criminali. Oggi, quella pagina nera della Storia, ha un volto e un nome, quelli del criminale di guerra, ex generale croato di Bosnia, Slobodan Praljak, suicidatosi in diretta al momento della sentenza che lo condannava a 20 anni di carcere. Non provo alcuna pietà, lo confesso, per quest’uomo, responsabile non solo del bombardamento dello Stari Most, ma di una serie inaudita di omicidi e violenze verso civili inermi. E così, ieri, sono andato a rileggermi Sarajevo Maybe, di Gianfranco Bettin. In particolare le pagine dedicate al Ponte di Mostar, che allego qua sotto. Libro che potete trovare qui se avete un iPad, qui se avete un Kobo, e qui se avete un Kindle. Buona lettura.



Dal libro Sarajevo Maybe, di Gianfranco Bettin (Feltrinelli, 1994 – Terra Ferma, 2015)

Tornato da Mostar, Davide mi raccontò, più o meno, queste cose. Solo, con più scoramento, con più pessimismo di quanto traspariva dal suo reportage.

«È irreparabile…» disse. «Ciò che si è spezzato laggiù non si potrà aggiustare. E anche ciò che qui, invece, non si è spezzato: l’indifferenza, lo stare a guardare commossi, nel migliore dei casi. Questo sì che doveva rompersi. Invece niente. Solo ignavia, ipocrisia».

Quando giunse la notizia che a Mostar il ponte era stato abbattuto mi telefonò.

«Sono peggio che pazzi», disse: «Sono sani di mente e insani di cuore».

Poi recitò una frase, un verso: «Questo ponte è come il semicerchio dell’arcobaleno. Esiste qualcosa di simile al mondo, mio Dio?»

La frase è incisa in una pietra posta a fondamenta del ponte nel 1556, anno in cui se ne iniziò l’edificazione, su progetto dal persiano Hairudin, conclusasi dieci anni dopo.

«Era un bel tipo questo Hairudin», disse Davide «La notte prima che il ponte fosse inaugurato se ne andò da Mostar senza dire niente a nessuno. Forse temeva che non stesse in piedi, tolte le imbracature, che fosse troppo audace quell’unica linea di pietra che s’inarca a schiena d’asino tra le due sponde della Neretva. Chissà…»

Per 427 anni lo Stari Most ha resistito a tutto, proseguì: per 427 anni, e poi arriva una testa di cazzo in divisa, anzi un’intera armata di teste di cazzo e sotto i nostri occhi, ripresa dalle nostre telecamere, ritrasmessa dai nostri satelliti in tutto il mondo, può bombardarlo tranquillamente e sprofondarlo nel fiume.