Un ferragosto del secolo scorso
Che fai oggi, mi chiedono. Oggi che è ferragosto. E io, a ferragosto scrivo. Devo averlo fatto anche il giorno di ferragosto del 1993. Se non ricordo male, devo avere scritto questo reportage dalla Biennale Arte, che uscì poi sulle pagine culturali di Mattino di Padova, Tribuna di Treviso e Nuova Venezia. Era da poco uscito il mio primo romanzo, Terra rossa.
Venezia in agosto non è poi così vuota di veneziani. O meglio, dei pochi veneziani ancora residenti a Venezia, sono parecchi quelli rimasti in città nel mese di agosto. E per chi è rimasto, il problema da cui difendersi è – guarda un po’ – il gran caldo. Niente di strano, è vero, ma l’umidità, qui, è davvero imbattibile, capace di arrivare alle 17 di un pomeriggio qualsiasi al 90% con 33 gradi di temperatura. Un po’ come vivere in un acquario, insomma.
E allora, come affrontarla una giornata così? Innanzi tutto c’è il Lido, la spiaggia dei veneziani, e c’è chi ha la barca oppure, a casa, il condizionatore, e allora, niente di meglio che starsene lì, davanti alla televisione e ai campionati mondiali di atletica leggera (conosco uno che per colpa dell’aria condizionata, si è innamorato della giavellottista norvegese Trine Hattestad, forse un po’ troppo massiccia nel fisico – è pur sempre una lanciatrice – ma dal viso d’angelo, dice il mio amico, che già pensa a un viaggio in Norvegia).
Poi, la sera, ci sono due mete diventate rituali: il cinema all’aperto di Campo Sant’Angelo e il ritrovo poi nei quattro bar di Campo Santa Margherita. In uno di questi, il Caffé di Renzo Ballarin – diventato ancora più celebre in città dopo la sua apparizione a “Il rosso e il nero” durante l’occupazione della facoltà di architettura la primavera scorsa e dove una sua affermazione sul ’68 è stata commentata in studio da Santoro e D’Alema – in questo bar, dicevo, alcune serate sono dedicate a letture di poesia, con la presenza dei poeti locali. L’appuntamento più affollato è stato quello con la porno-poetessa Lucia Lucchesino, famosa per avere avuto una parte in uno dei film di Tinto Brass. Quale? Boh, uno dei soliti fra gli ultimi cinque sei sette.
Insomma, si passa qualche ora al bar, si beve e si chiacchiera, cercando di andare a dormire il più tardi possibile. E per chi abita a Mestre, poi, c’è un appuntamento finale, quello con gli ultimi autobus in partenza da Piazzale Roma: tutti fuori dalla vettura a boccheggiare, autista compreso, in attesa della partenza: l’umidità a quest’ora, è sempre intorno al 90%.
Venezia d’estate, però, ha qualche altra variante a disposizione, ma si tratta di itinerari preda soprattutto dei turisti. La Biennale Arte, per esempio, potrebbe essere visitata o rivisitata proprio in questo periodo, non fosse che il suo orario di apertura coincide – purtroppo – con le ore più calde della giornata: 11-18. Veneziani forse a settembre, allora. Ma chi è che si avventura in pieno agosto fra i padiglioni dei Giardini di Sant’Elena? Sono andato a vedere. Un sabato d’agosto, vaporetto pieno di turisti alle 14, temperatura 30 gradi, umidità 83%.
Alla biglietteria espongo subito una mia curiosità: “C’era qualcuno di voi quando, il 1° luglio, sono venuti Bono e The Edge?” Un ragazzo risponde subito che lui era lì, che il cantate e il chitarrista degli U2 si sono prersentati alla biglietteria come due visitatori qualunque, hanno pagato le loro 10.000 lire (non come me che ho esibito l’accredito dell’inaugurazione scaduto da due mesi, ma, gentili, me l’hanno subito rinnovato) e sono entrati insieme a due ragazze e due guardie del corpo che li accompagnavano. Chiedo anche se c’è qualcuno che li ha guidati fra i padiglioni e mi dice di parlare con Lorenzo Cortesi. Dentro, incrocio uno che ha un foglio bianco in mano ed è proprio lui. Poi, appena nominati gli U2, gira verso di me il foglio bianco, una foto dove si vedono Bono e The Edge con due guardasala e il giovane con cui sto parlando. Mi invita nel suo ufficio e mi racconta di quel giorno, la vigilia della parte italiana dello Zoo TV Tour. È da un po’ che penso che Bonito Oliva abbia sbagliato a non invitarli come espositori, il palco allestito da Brian Eno è senz’altro all’altezza (se non di più) di tante opere presenti qui. Ma è una considerazione che tengo per me.
Mi rendo conto soltanto adesso di avergli chiesto poco: né l’ora in cui sono arrivati, né quanto sono rimasti, né quali padiglioni hanno preferito; ma del resto, proprio per questo non ho mai fatto il cronista. Così, l’unica richiesta sensata è stata quella di sapere se c’era qualcuno che aveva parlato un po’ più a lungo con i due. Mi indica uno dei due guardasala, una ragazza dai capelli lunghi che, anche se di profilo, penso di riconoscere, convinto di averla vista chissà dove. “Lavora al padiglione Venezia”, mi dice e qui, altra pecca del cronista, non ho il coraggio di dirgli che non so quale sia, il padiglione Venezia. Lo troverò. (E invece no, e nemmeno lei). Saluto, ringrazio ed esco.
Comincio a girare fra i padiglioni e noto che di gente ce n’è, anzi, che, sparpagliati in giro, ci sono “tutti” quelli che ci devono essere: la comitiva di giapponesi che fotografa anche le panchine, studenti in vacanza, anziane e documentatissime anziane signore americane che sanno tutto di Louise Bourgeois, qualche famiglia al completo che si guarda intorno perplessa. Insomma, nonostante temperatura, umidità, tentazioni da spiaggia a una fermata di vaporetto da qui, alla Biennale di gente ce n’è e del resto me lo aveva detto Cortesi che l’unico calo di visitatori era stato dopo le bombe di Roma e Milano, ma che adesso tutto era tornato normale. Il fatto è che per me non è per nulla normale venire qui in un pomeriggio così. Ma forse non ho la stessa “passione” di quelli che girano da queste parti. O, meglio, sono un privilegiato che può venirsene qui (e gratis) quando vuole e non è di passaggio a Venezia soltanto oggi. Già, vero.
Ma è anche vero comunque che i luoghi più affollati sono – guarda caso – il bar riparato da alberi e ombrelloni e il padiglione israeliano, dove un artista di cui non ricordo il nome ha allestito una serra con piante di cetrioli e – soprattutto – con una grande vasca dove, dall’alto, scroscia una vera e propria cascata d’acqua. Non riuscirei a dire quale sia il valore artistico di tale allestimento, non ne ho le competenze, posso però dire che starsene seduti lì davanti a quella cascata per una mezz’ora è stato davvero tonificante.
Quando finisco il giro dei padiglioni (penso sia giusto segnalare ai responsabili che la pavimentazione distrutta di quello tedesco è sempre più scarsa, i pezzi credo finiscano nelle borse e nelle tasche di molti visitatori, un po’ come il muro di Berlino) è già abbastanza tardi. Rinuncio alle Corderie e tento di raggiungere i Granai alla Giudecca per rivedere (e ascoltare) Cage, Wenders e Wilson. Fra traghetti e un breve ma necessario ristoro – durante il quale mi domando perché non si dipinga più e soltanto i giovani della Fondazione Bevilacqua La Masa continuino a farlo, anche qui alla Biennale, Maria Teresa Sartori, per esempio, o Luca Clabot – arrivo davanti che è già chiuso. Ma lì, alla Giudecca, c’è una galleria che resta aperta fino alle 20, la Nuova Icona di Vittorio Urbani, che espone le opere di uno dei più interessanti artisti presenti alla Biennale. Così, mentre soffia qualcosa che assomiglia a una specie di brezza, decido di andare a rivedermi le opere di Nagasawa. Poi raggiungerò quel mio amico al Caffè, per chiedergli se ha intenzione di andarci da solo in Norvegia a trovare Trine Hattestad.