Ritornare a Parigi (sei)
Salgo la scala della metropolitana, uscita Place de la République, e so di avere il monumento dei fratelli Morice alle mie spalle. Lo so perché quest’uscita l’ho fatta un bel po’ di volte, ma anche mi fosse stata sconosciuta, me lo avrebbe confermato la signora in piedi alla fine della scalinata che sbocca sulla piazza. Sta inquadrando qualcosa qua dietro e quel qualcosa, qui, può essere una cosa sola. La aggiro che sta ancora con le braccia tese in alto, lo sguardo all’insù a controllare che sul display tutto sia a posto, che la Marianna in bronzo non strabordi il margine, che ogni cosa là sotto, ai piedi del monumento resti dentro alla cornice della foto che poi metterà su Instagram o Facebook o chissà dove. Le passo dietro e scatto subito una foto anch’io, facendo però molta meno attenzione della signora che finirà sull’angolo destro inferiore della mia inquadratura. Scatto, poi abbasso l’iPhone, lo metto in tasca e lo sostituisco con il taccuino e la penna. Il monumento simbolo della République è lì, non più soltanto monumento storico ma memoriale vivente di questo presente, dalla sera del 7 gennaio 2015 in poi, alimentato di continuo, momento dopo momento, da piccoli gesti di memoria, il tentativo, riuscito, di rendere concreto il ricordo, un pensiero, un’emozione, un sentimento. Même pas peur, vedo subito, scritto su uno striscione in plastica, dove la A di pas è una Tour Eiffel formato smile che fa uno sberleffo, e poi una bandierina del Portogallo e tante francesi attorno, fiori secchi, fiori freschi, fogli incollati alla circonferenza del piedistallo o appoggiati accanto all’anello infinito di lumini multicolori, bicchieri, vasi, piantine, cuori in plastica, penne. Una signora coi capelli bianchi è in piedi sopra al piedistallo, con il manico di una scopa cerca di togliere non so bene cosa dal canalino che circonda il monumento, toglie cartoni imbevuti d’acqua, mette ordine, insomma. “La manutentrice della memoria”, la definisco sul taccuino.
Una giovane giornalista si avvicina per intervistarla, allunga il microfono verso l’alto, verso la manutentrice della memoria, che non riesco a sentire ma provo a immaginare le sue parole. Però non le scrivo. Ci sono tanti ragazzi a girare attorno al monumento, si fermano, indicano qualcosa, scattano qualche foto. I loro volti hanno un’espressione intensa, concentrata, grave. Turisti e parigini, adulti e studenti. Mi hanno detto che è così sempre, ogni giorno, e che nei week end ci sono dei veri e propri raduni spontanei, con canti, recite, letture. Il selciato è lucido dalla pioggia che dev’essere caduta mentre stavo sotto, in métro, il cielo è nero, eppure, di lato, dalla rue du Temple, un raggio di sole illumina la piazza, una giovane coppia sussurra qualcosa ai propri figli, e intanto i due più piccoli non staccano gli occhi dal disegno di una Tour Eiffel colorata di blu bianco e rosso e la sorella più grande muove le labbra pronunciando a se stessa le parole di Imagine, di cui sta leggendo il testo da un foglio incollato giù in basso, un altro gruppetto di studenti sta passando in rassegna passo dopo passo i nomi con le iniziali del cognome delle vittime degli attentati incollati alla base più piccola del monumento. Oltre ai nomi, Liberté e paix mi sembrano essere le parole più frequenti. Immaginando il monumento come se fosse un quadrante, a ore quindici, lato rue du Faubourg du Temple, c’è una manciata di ragazzotti imbecilli che giocano a pallone. La piazza è enorme e potrebbero tranquillamente spostarsi più in là. Ma lo stanno facendo apposta, è evidente. Palleggiano comunque con maestria un pallone blu scuro con lo stemma del Paris Saint Germain. Fa un freddo pungente eppure le decine e decine di persone di persone che come me continuano a girare attorno al monumento, (tutti in senso orario) sembrano non volersene andare, non potersi allontanare. Staccarsi da lì e ritornare alla normalità, alla quotidianità sembra quasi un oltraggio.
Lo avevo già individuato prima quel signore coi capelli bianchi che si aggirava anch’egli, come la manutentrice della memoria, sulla base del piedistallo che circonda il monumento. Ha in mano un sacchetto di plastica verde, di quelli della spesa e, dentro, il sacchetto è pieno di pennarelli. All’ennesimo giro attorno al memoriale lo sorprendo mentre ricolora il blu di un tricolore su un grande foglio bianco, plastificato immagino, con su scritto Paris ne pleure pas, le méchants c’est eux, ritocca il blu e poi il rosso, probabilmente scoloriti dalla pioggia di poco fa, il manutentore dei colori della memoria, scrivo sul taccuino, una specie di pronto intervento del ricordo, la coppia coi capelli bianchi. Una ragazza giapponese se ne infischia dell’umido che c’è per terra, si inginocchia e legge una lettera contenuta in una cartellina in plastica e scritta da chissà chi, quel che dice non lo so, ma vedo quelle parole rifrangersi in increspature dello sguardo della ragazza, in incrinature delle sue labbra, in inclinazioni della sua testa, dietro di lei un ragazzo con le cuffiette è incantato da qualche minuto, immobile, lo sguardo al contempo verso il monumento e verso il nulla, incantato, immobile. Non so da quanto tempo sono qui, ormai, dopo decido di andarmene e mentre mi allontano sento il clangore di vetri infranti, mi giro e vedo uno dei ragazzotti imbecilli andare a recuperare il pallone in mezzo ai vasetti dei lumini, alcuni dei quali finiti in frantumi. Torno indietro quasi di corsa e mi piazzo davanti a lui, in piedi sul piedistallo, che sta per calciare il pallone ridendo. Lo guardo fisso negli occhi per due, tre, quattro, cinque secondi e alla fine non sorride più.