Auschwitz al Lido di Venezia

Il 26 gennaio 2003, ho incontrato la signora Virginia Gattegno, deportata ad Auschwitz nell’estate del 1944. Fu il capo servizi della cultura a chiedermi di andare a quell’incontro. Io, ricordo, replicai dicendogli che un cronista sarebbe stato più indicato. No, replicò lui, fai lo scrittore, voglio che la racconti tu la sua storia. Aveva ragione, solo che poi, in poche righe, è solo un abbozzo di storia. L’intervista fu pubblicata sulla Nuova Venezia del giorno dopo. Non l’ho più riletta. Mi è ritornata in mente questa mattina, così come la mia visita alla Risiera di San Sabba, che avevo fatto un paio di anni prima e che potete leggere qui. L’ho cercata dentro vecchi hard disk e cd-rom graffiati. Poi l’ho ritrovata grazie al prezioso aiuto di Roberta de Rossi, giornalista della Nuova Venezia.



Quella del 27 gennaio è la ricorrenza della vergogna dell’umanità. La giornata della memoria. Per non dimenticare, certo. Ma quando ciò si rende necessario, quando si deve sollecitare la memoria istituendo la celebrazione della liberazione di Auschwitz, allora significa che la memoria sta svanendo e va tenuta desta. Sta svanendo o, peggio, qualcuno sta cercando di farla svanire. Invece – vale la pena ripeterlo di continuo – il 27 gennaio dovrebbe essere sempre, ogni giorno. Dovrebbe. Ma all’umanità non è bastato neppure quello. Neppure la Shoah. A distanza di decenni lo abbiamo visto e lo stiamo vedendo. Quando i russi sono entrati ad Auschwitz hanno provato gli stati d’animo più ovvi: la sorpresa, l’incredulità, ma soprattutto la vergogna di far parte di un’umanità capace di tanto. Chiunque, dopo Auschwitz, ha pensato “mai più”. Mai più così. Quel 27 gennaio 1945 lo ha raccontato bene Primo Levi nel romanzo La tregua, libro che Virginia Gattegno portava con sé nelle scuole quando andava a raccontare la sua storia. La storia di una sopravvissuta di Auschwitz. In vaporetto, verso il Lido dove la signora abita, sfogliavo un depliant dell’Einaudi dedicato alla giornata della memoria. Sono tutti i libri che la casa editrice torinese ha dedicato all’argomento, decine e decine, dal Diario di Anna Frank ai libri di Primo Levi, dalla Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice a Vai a te stesso di Moni Ovadia. Guardo tutti quei libri e mi chiedo cosa si possa chiedere a una signora di ottant’anni che è stata ad Auschwitz. Nulla, mi dico. Oppure no: tutto, invece. Avrei dovuto sedermi di fronte a lei e chiederle di raccontarmi tutto. Perché è la prima volta che mi capita di poter parlare con qualcuno sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti. Perché anche la mia, di memoria, ha bisogno di essere nutrita di continuo. E invece, quando la signora Virginia – un’elegante signora che dimostra molto meno dei suoi ottant’anni – mi fa accomdare in casa sua, mi sforzo di tirare fuori domande che non siano banali o retoriche e che invece, alla fine, non possono che essere banali e retoriche. «In questa data – dice subito – mi aspetto sempre delle telefonate dai giornali, anche se le ricorrenze mi rendono nervosa». Sul tavolino c’è un fascicolo con su scritto “Giorno della memoria”. Il monito a noi tutti smemorati. Le chiedo subito di quel suo testimoniare in giro per le scuole. «Come la maggior parte dei superstiti io ho taciuto per anni. È ormai un dato acquisito, studiato. Ed è anche abbastanza facile spiegare il perché. L’ho chiesto a me stessa ma credo si possa dire anche per gli altri. In un primo momento c’è stata subito voglia di dimenticare. Nell’immediato dopoguerra ognuno aveva i suoi guai, i suoi brutti ricordi, pochi erano disposti ad ascoltare un reduce dai campi. E poi c’era anche una forma di pudore, il pudore delle vittime: uno non va in giro a gloriarsi di essere stato una vittima. Inoltre, c’era anche tanto scetticismo. Mio marito mi raccontò che mentre era in Egitto con gli inglesi vide uno dei primi documentari dai campi di sterminio e aveva pensato che fosse propaganda». Già, molti lo pensano anche oggi, ne sono convinti e vogliono convincerci. Alcuni storici revisionisti, per esempio: «Il fatto è che nessuno vorrebbe accettare Auschwitz», dice la signora Virginia. «Anche da questo forse arriva il revisionismo. Resta il fatto che chiunque lo neghi, oggi, è in assoluta malafede». Torniamo alle scuole, a questi giovani la cui memoria, non soltanto per colpa loro, oggi è sempre più debole. «Sì. Dopo anni di silenzio – anche in casa, con le mie figlie – ho incominciato a parlare. Qualcuno ha iniziato a fare domande. Insegnavo in una scuola elementare e le prime a invitarmi a degli incontri sono state le mie colleghe. Si è sparsa la voce, il mio nome nella comunità ebraica è conosciuto e ogni anno ce n’era più d’uno di questi incontri. E da lì, da quel momento si è come aperta una diga. Ho parlato molto, ma evitavo di raccontare gli orrori di Auschwitz, questo lo precisavo subito. Parlavo soprattutto del significato di antisemitismo, razzismo, xenofobia. Poi venivano le domande anche provocatorie da parte dei ragazzi. Non ho mai portato niente con me di scritto. Lasciavo che la cosa nascesse da sé fra me e loro. Spero che qualche seme sia riuscita a piantarlo qua e là – continua Virginia – Anche se, a dire il vero, se mi guardo attorno, dopo avere vissuto la seconda guerra mondiale, dopo essere sopravvissuta ad Auschwitz, dopo avere visto tutto quello che ho visto, è incredibile trovarsi qui alla vigilia di una nuova guerra (la guerra in Irak, ndr), con rigurgiti sempre più evidenti di antisemitismo in giro per il mondo che colgono al volo come alibi ciò che sta facendo Sharon nei territori occupati. Nemmeno a me piace Sharon, sia chiaro, ma questo non giustifica episodi ricorrenti contro le comunità israelitiche, soprattutto in Francia». Parliamo di cinema. Di Benigni che non ha visto e di Train de vie che invece ha amato moltissimo. Di quell’opera imponente di Steven Spielberg seguita a Schindler’s list, le interviste a tutti i sopravvissuti ai lager. Sono venuti anche qui da lei, i collaboratori di Spielberg. Poi, parliamo anche della Lega e di pacifismo. Finito il giro largo, che ho deciso di prendere mio malgrado, le chiedo di quei giorni. «Abitavamo a Rodi. Mio padre era nato a Salonicco e nel ’36 aveva avuto il posto di direttore della scuola ebraica di Rodi. Il primo impatto con le leggi razziali ci è arrivato attenuato. La deportazione invece è stata uno choc perché non ce l’aspettavamo, inoltre lì era impossibile fuggire. Ci hanno preso nel luglio del ’44. Mi sono salvata grazie ai piedi che avevo congelati, perciò i tedeschi non mi hanno portato con loro. Anche mia sorella è sopravvissuta. Poi, dal 28 gennaio siamo rimaste coi russi fino al luglio ’45. Siamo andate a Roma sperando di trovare qualche parente, che per fortuna c’era». Poi, dico qualcosa di poco comprensibile, qualcosa che vorrei chiedere ma che non mi riesce. «Come ho fatto a sopravvivere là dentro?», mi aiuta lei. Ecco, sì, confermo io. «Non lo so. Io se ripenso ad Auschwitz lo ricordo in bianco e nero: la neve, il cielo plumbeo, la cancellata scura. Non c’erano colori in quel campo. Non so perché sono sopravvissuta, non per la religione, per la fede, io non ero religiosa. Forse l’idea di non voler morire lì. Sì, questo. Non mi importava di sopravvivere, ma mi bastava non morire in mezzo a quel fango, anche solo un metro oltre i reticolati, ma fuori di lì». Non è più tornata ad Auschwitz, la signora Virginia. Forse è sempre rimasta lì. Quando esco mi rendo conto dell’imbarazzo che ho provato durante tutto l’incontro, e anche di un vago e per niente assurdo senso di colpa. Per questo, mi dico, tocca a noi tornare ad Auschwitz, perché c’è stata l’umanità intera, dentro a quei campi. Dobbiamo tornarci in ogni momento, la memoria sempre accesa. E non soltanto il 27 gennaio di ogni anno.