U2 su Periscope e in un romanzo

Gli U2 stanno suonando a Parigi in questo momento. È il recupero delle due date cancellate dopo le stragi del 13 novembre scorso. Li sto guardando su Periscope. A rotazione c’è sempre qualcuno dagli spalti o dal parterre che trasmette una canzone intera in diretta, e l’audio è ottimo. Posso quindi avere anche punti di vista differenti. Ieri sera ho visto in diretta il finale del concerto dove i quattro di Dublino hanno cantato People have the power insieme a Patti Smith, dedicata alle vittime degli attentati. Fino a poco tempo fa era impensabile immaginare che un qualunque sconosciuto potesse farti assistere col telefonino a qualcosa che sta avvenendo lontano da te. Certo, non è la stessa cosa che essere lì, ma sentirsi un po’ a Parigi questa sera, con la voce di Bono (sta cantando Raised by wolves in questo momento, e sull’enorme display che costeggia il palco appare l’hashtag quanto mai appropriato di #stronger than fear), è comunque un vero piacere. E allora mi viene voglia di ripescare un paio di pagine dal mio romanzo Cosa cambia, edito nel 2007 da Marsilio, dove alcuni personaggi del libro partono da Genova (il libro racconta i giorni del G8 del 2001) per andare a Torino a vedere il concerto degli U2. Il protagonista, a un certo punto, decide di fare ascoltare al telefono una canzone alla sua ex compagna che, dopo anni di convivenza, ha appena lasciato. Fa in maniera più artigianale (il massimo consentito dalla tecnologia di allora), quel stanno facendo degli sconosciuti con me questa sera. Alla fine del concerto di Torino, sulla strada del ritorno, i personaggi del libro verranno chiamati dalla scuola elementare Diaz, mentre sta iniziando l’incursione da parte della polizia.

 
Da Cosa cambia (Marsilio, 2007, pp. 155-158)

Stavano suonando già da una ventina di minuti, ma io ancora non ero connesso, non ero ancora del tutto là dentro. Solo che il rock è evocazione. Ti salva la vita, ha detto un giorno qualcuno. Ma se proprio non te la salva, te la fa vivere meglio, accidenti. Tan tatatan, tatatan, tre volte, poi The Edge alle tastiere e All is quiet in new year’s day cantò Bono e io fui perduto. Non ci pensai nemmeno, feci il numero di Angela, quello di casa, d’istinto, e mica potevo sentire se fu lei a rispondere, se scattò la segreteria. Non mi domandai se lei avrebbe apprezzato o no, girai il telefonino in direzione del palco e Bono cantò I will be with you, again. No, non lo avrebbe preso come un messaggio, come una richiesta o un’invocazione. No. Lei lo conosceva il significato di quella canzone. Non poteva averlo dimenticato. Cerco di metterla sempre, A new year’s day, a cavallo della mezzanotte dell’ultimo dell’anno, in qualunque luogo, a qualunque festa io sia. Se non ci riesco, me la canto da solo. L’avevamo ascoltata insieme un ultimo dell’anno di molti anni prima, e poi, poche ore dopo, sarebbe stata la nostra prima volta. A new year’s day. E allora avrei dovuto girare il cellulare verso di me e chiederle se se lo ricordava, Angela, di quella volta a Reggio Emilia, al concerto di qualche anno prima, il concerto dei centocinquantamila. L’ascoltammo ab­bracciati, anche se da lì in fondo, dove eravamo, potevamo fare solo quello, ascoltare. Mi aveva portato lei, lì. Co­me al solito. Mi ha sempre portato dappertutto. E quella volta ha detto usciamo qui, un’uscita insignificante vicino a un paesino nei pressi di Reggio Emilia, intasata dalle migliaia di fan diretti al concerto. E mi ci portò dritta, Angela, senza far code, senza quelle attese che mi hanno sempre fatto temere di perdere qualcosa di imperdibile, come quando alle prime note di Elevation, a Torino, appena scesi dalla macchina, ho imprecato. Prese la stessa decisione anche alla fine, Angela. Giriamo di là, disse, e stavolta era una stradina di campagna, buia, stretta. Abbiamo lasciato gli altri in coda dalla parte opposta e dopo pochi chilometri di strada che sembrava portarci dritti verso l’infinito ci siamo ritrovati allo stesso casello del paesino di prima. Soli, gli unici. È fatta così, Angela. Leggere le mappe per lei non è un’abilità, spostarsi per lei non è mai stato solo un semplice andare, ma un vero e proprio sentire. Le fosse riuscito anche con la nostra, di mappa. La mappa del nostro sentimento, quella carta che giorno dopo giorno, fra noi, si ramificò di emozioni, si dipanò di gesti, si intersecò di parole. Arterie di passioni, svincoli di sguardi, varianti di carezze. Incroci di vite, nelle mappe dei sentimenti, incapaci, le nostre, di procedere alle velocità adatte allo stare insieme. Esistesse, poi, un’andatura ideale, possedessimo davvero i mezzi necessari, o anche soltanto i semplici passi, per questo viaggio insieme. No, non la vendono in nessun posto, una mappa del genere, tanto meno questa, stesa sul letto della 914, dove non lo disegno, ma cerco solo di immaginarlo, il percorso di un sentimento. Uscendo da Reggio Emilia, mi illusi che avremmo potuto disegnarcela noi, da soli, la nostra mappa. Per questo, quella sera, quando vedevo gli altri prendere in spalla la loro morosa, provavo una stretta al cuore. Avrei voluto farlo anch’io. Un gesto apparentemente semplice, prenderla in braccio, issarla sulle mie spalle, e farla diventare il mio sguardo. Lo pensai, lo desiderai, forse, ma non ci provai nemmeno. E nemmeno glielo dissi. Farle ascoltare A new year’s day al telefono, allora, mi parve qualcosa di simile, un gesto di tenerezza fuori tempo massimo. Girai il cellulare verso di me più o meno a metà della canzone e sul display non c’era più alcuna traccia di comunicazione. Guardai la lista delle chiamate effettuate. La telefonata era durata un minuto esatto, il tempo che io stesso avevo scelto quando avevo configurato la segreteria di casa. Lo avrebbe sentito al suo rientro o forse lo aveva già ascoltato, semplicemente non aveva risposto. Provai a pensare – anzi no, a dire il vero mi venne, fu qualcosa di più forte di me che scattò lì per lì – mi chiesi, ecco sì, mi domandai dove fosse in quel momento, alle dieci di sera di sabato. Ripensai alle nostre abitudini e mi chiesi come cambiano, in quanto tempo, le abitudini di qualcuno che non fa più parte di una coppia, che non deve più condividere, più donare, più ricevere, ma solo fare, senza più dover rendere conto a nessuno. Mi chiesi quanto tempo fosse necessario per trovare un passo nuovo, delle scansioni diverse, quanto ci avrei messo io, che ancora non avevo avuto il tempo di provarla, questa novità piombataci addosso dopo che le avevo detto me ne vado. Stavo definitivamente uscendo da Genova, mi dissi allora, il mio passato mi veniva incontro come un gas inodore, invisibile, però non velenoso, mi sembrava, e non sapevo che cosa fosse meglio, se ti lacera di più un evento drammatico e però pubblico, che condividi con migliaia di persone, oppure quello privato, evento ricorrente e banale che quando ti sorprende, però, ti fa sentire come se fossi tu il centro del disastro sentimentale, del fallimento assoluto, della tristezza solitaria e infinita.