La marcia scalza. Il racconto.
Questo articolo è uscito sabato 12 settembre 2015 sul Corriere del Veneto.
Alla fine, senza averlo previsto, senza essersi dati appuntamento lì, un bel po’ dei duemila partecipanti alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi, si sono ritrovati sulla spiaggia del Lido nell’ora più bella, quella che volge al desìo, a mettere i piedi anneriti dal cammino nell’acqua di mare. È come se si fosse compiuto al completo, e con tutte le inevitabili e debite differenze, il simbolico cammino fatto quotidianamente da migranti e rifugiati. Credo provino tutti la stessa dose di imbarazzo ho provato io, perché per quanto simbolica, questa marcia e questo finale nel mare, nulla hanno a che vedere con ciò che da anni sta accadendo nel Mediterraneo. Ma ci abbiamo provato, tutti, a testimoniare. Abbiamo provato, per quanto possibile, che cosa significhi percorrere scalzi quelle strade, quei percorsi che normalmente attraversiamo dentro alle nostre comodissime calzature.
Ci abbiamo provato, in duemila, qui al Lido di Venezia, e chissà quanti altri in giro per l’Italia. Magari all’inizio un po’ titubanti a mettere i propri piedi nudi sull’asfalto di Santa Maria Elisabetta, ma poi, metro dopo metro, leggevi nei volti anche una certa soddisfazione, per quel contatto diretto con il suolo, per quella marcia scalza, anche se poi in una località di mare fa di sicuro meno effetto che a Milano o a Parma. Siamo partiti dopo aver abbattuto una rete, simbolo di barriere e muri che alcuni stanno issando lungo le proprie frontiere, simbolo di quei blocchi navali invocati da tanti, anche dalle nostre parti. La marcia delle donne e degli uomini scalzi. Potrebbe essere il titolo di un film, questo, proprio perché nata, l’idea, dal mondo del cinema, ma se così fosse, non si tratterebbe affatto di finzione. Sarebbe un documentario, di quelli che raccontano la realtà più cruda di quest’epoca, una realtà che dovrebbe essere indiscutibile, che dovrebbe portare tutti – tutti, nessuno escluso – alla comprensione, alla solidarietà, al buon senso, e che invece divide, che riesce a tirare fuori a molti – troppi – il peggior egoismo, la più inaccettabile indifferenza, il più freddo e becero razzismo.
Una marcia di donne e uomini, ma anche tanti bambini, felici davvero, loro, di aver potuto scorrazzare scalzi. Se ne stavano per la maggior parte attorno ai ragazzi africani che suonavano i tamburi, che ballavano. E a un certo punto, un bambino biondo ha dato il via al più spontaneo e gioioso e scombinato dei girotondi, finito con una tombola e una risata collettiva. Una marcia colorata, festosa, sorridente.Il resto del Lido, il Lido che stava in disparte, ai lati, ha guardato e ascoltato, un po’ in silenzio, un po’ indifferente. Mescolati ai partecipanti, alcuni politici, discreti e in disparte, anche se tutti – tutte, più che altro – si domandavano dove fossero Alessandro Gassman e Valerio Mastrandrea. Magari si sono mescolati, discreti anche loro. Forse Alba Rohrwacher era quella ragazza che ho intravisto in fretta, occhialoni scuri e capelli come i suoi, chissà. O magari non sono proprio venuti, chiosa maliziosamente qualcuno. Ma nessuno vuole dirselo sul serio. E poi chi se ne importa. La marcia delle donne e degli uomini e dei bambini scalzi è stata uno dei momenti più belli e intensi di questo Festival. Lo capisci alla fine, quando, i piedi a mollo, ti guardi intorno e vedi solo facce sorridenti, nonostante qualche vescica, qualche graffio. Non servirà a molto, certo. Non sposterà gli equilibri di una politica che ancora arranca attorno a un tema epocale e cruciale, ma è stato importante esserci. Anche se gli attori, alla fine, non li abbiamo visti.