Charlie Hebdo (e Venezia), cinque mesi dopo
Ieri, 7 giugno 2015, ricorrevano i cinque mesi esatti dalla strage del 7 gennaio a Charlie Hebdo. Quando sono venuto qui a Parigi, in marzo, sono andato a rendere omaggio alle vittime al numero 10 di rue Nicolas Appert, nell’XIº arrondissement di Parigi. Era un giorno qualunque di marzo, una giornata freddissima, e c’era un via vai di gente davanti a quello che era diventato un mausoleo laico, un angolo della memoria. Una montagna di fiori, e di disegni e di penne, e di colori. Era la pratica della memoria, la tangibilità dell’emozione, era il messaggio fatto oggetto, una cosa da mostrare al mondo. Era un modo di dire “qui” e poi “mai più”. Ed era anche un luogo di condivisione, laico, perché lì c’erano la memoria e il dolore di tutti, senza differenze, senza divisioni, senza odii. Davanti al palazzo di Charlie Hebdo, transennato, c’era una camionetta della polizia, ancora lì due mesi e mezzo dopo la strage. Poteva sembrare esagerato. Poteva essere scambiato come un’ostentazione di potenza, di una città in permanente assetto di guerra. “Per difendere la memoria di questo luogo. Per evitare che la memoria venga oltraggiata”, mi disse il poliziotto. Rimasi senza parole, e dentro, una commozione indicibile.
Sarebbe stato inimmaginabile, lì, in quel luogo, sentire certe frasi, certe aberranti affermazioni razziste, quasi di odio, che si sentono in giro per Venezia e Mestre in questi giorni da parte di certi pasdaran del partito fucsia del candidato sindaco di destra. E se qualcuno in questo momento sta pensando “ma questo cosa c’entra”, rifletta qualche secondo, perché eccome se c’entra. Perché non impariamo mai nulla, perché la memoria dura ormai solo qualche giorno, e se non la nutri, e se non la alimenti, svanisce. Se non le metti accanto dei valori, se non la coltivi di continuo, sparisce. Ma non basta nemmeno questo, perché quando poi dentro l’animo e la mente di alcuni – troppi – c’è una tabula rasa, piena solo di slogan e di idiozie, la memoria non troverà mai il terreno adatto dove mettere radici. La gente che a Venezia, Mestre e Marghera sta andando in giro a dire certe bestialità ha dentro di sé il vuoto pneumatico di valori, di idee, di buon senso. Il vuoto delle idee e, soprattutto, della politica.
Ma non riguarda soltanto Venezia, perché pure qui, di gente che la memoria vorrebbe cancellarla, ce n’è, e trova sempre più consenso. Ieri sono ritornato al 10 di rue Nicolas Appert, pronto a rendere di nuovo omaggio, sei mesi dopo, a tutte le vittime di quei giorni a Parigi e mi sono trovato davanti alla desolazione. Sparito tutto. Più nulla, se non qualche scritta qua e là e un paio di manifesti con i volti di Charb, di Cabu, di Wolinski. Non me lo spiego, quel vuoto. Per un momento è questa sparizione a sembrarmi oltraggiosa. Mi chiedo chi l’abbia voluta, che cosa significhi.
Davanti al palazzo di Charlie Hebdo ci sono ancora le transenne ma non più la camionetta della polizia. Due donne, due impiegate credo, escono dal portone dove entrarono gli assasini. Sorridono e si accendono una sigaretta sotto al sole tiepido di questo inizio giugno. Accanto a loro, incollato al muro, il manifesto più famoso del mondo, con la scritta Je suis Charlie in bianco su sfondo nero. Me ne vado lungo il percorso che fecero gli assassini. Passo accanto al luogo dove freddarono il poliziotto musulmano. Nessun segno, neanche qui, e mi dico che quel che conta, allora, è proprio la memoria dentro di noi, quella che non ha bisogno di simboli o di segni o di post it. Una memoria che dovrebbe appartenere a tutti, che dovrebbe arricchirci tutti, farci crescere tutti, farci diventare quegli esseri umani saggi e seri e consapevoli che tutti dovremmo essere. Che potremmo essere e non siamo.