L’Italia, il G8 e la tortura
La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze e le torture subite dai manifestanti da parte della polizia di Stato. Violenze e torture che ebbero luogo a Genova nel luglio 2001, durante i giorni del G8. Un momento tragico e vergognoso voluto da uno Stato – unico in Europa – che non contempla nel suo codice penale il reato di tortura. A commento della sentenza e per ricordare ciò che avvenne in quei giorni, pubblico qui qualche pagina – le iniziali – del mio romanzo Cosa cambia, edito nel 2007 da Marsilio. È il racconto di Lena, una ragazza tedesca massacrata di botte in quella notte fra il 21 e 22 luglio 2001 alla scuola Diaz.
Al buio di questa stanza d’albergo, adesso, e di quella lunga galleria, ore fa, Magdalena ha incominciato il suo racconto, come al solito. Sempre lo stesso. Arriva precisa, ma mai puntuale, da qualche anno a questa parte, Magdalena. Cadenze scandite da un immaginario, il mio, sprovvisto di timer. Arriva e mi racconta di come quella notte sia stata scaraventata a terra nonostante tenesse le mani alzate, di come quei dieci, dodici, quindici ma quanti, quanti erano gli uomini in divisa che quella notte la circondavano e che hanno preso a calci la sua schiena, il suo stomaco, le sue gambe? Loro, però, non li vedo mai, su questo strano schermo. Potrei immaginarli, non fosse inimmaginabile quel che hanno fatto. Risentirli, quello sì. Potrei approssimarli fin quasi al dettaglio, i suoni di quella notte. Perché li ho sentiti i suoni di quella notte, dentro a quella scuola. Distorti ma comprensibili. Per questo ignoro il play dell’audio e immagino ancora Magdalena, invece, che parla con la sua voce senza tono, come capita sempre, credo, quando ti tocca raccontare l’inverosimile.
Con quella voce, come se in un ipotetico equalizzatore vocale le fossero stati ridotti gli alti, o amplificati i bassi, Magdalena racconta di come sia stata sorpresa nel sonno, svegliata di soprassalto da un botto, una specie di esplosione però ovattata che arrivava dal piano di sotto e poi le urla dei poliziotti, urla di minaccia, mica di paura e li ha sentiti salire le scale, di corsa, calpestando chi stava ancora dormendo o spostandoli a calci dal loro percorso e li ha guardati venire verso di sé, anche se alcuni si fermavano via via, a occuparsi di altri che, come lei, erano stati svegliati di soprassalto e avevano alzato le mani, e non era un incubo, quello. No. Avanzavano irriconoscibili dentro ai loro caschi blu. Avanzavano, deviavano e restavano comunque tanti a venire verso di lei. Troppi. Verso di lei, verso chiunque, ragazzo o ragazza, uomo o donna, giovane o vecchio e nemmeno il tempo di dire nulla, di chiedere perché. Neanche un grido. Niente.
Si rannicchiò, Magdalena. Ritorni feto quando cerchi di proteggerti. Ritorni nel grembo, l’unico vero riparo della tua vita. Ai piedi di quegli uomini in divisa Magdalena tirò su le mani, ma non in segno di resa, questa volta, né per dire basta. Arrendersi perché, dire basta per che cosa, poi. Le tirò su d’istinto, le mani, a riparare la testa dai calci, dalle manganellate che venivano giù dritte, da ogni lato, impossibile anticipare nulla, prevedere niente, mani in alto e basta, e quelli il bersaglio lo beccavano sempre, ché anche le mani e le braccia sono di carne, di ossa, meno fragili del cranio, ma fanno un male cane pure lì le manganellate, i calci. Un calcio. Uno solo, fra tutti. Non più potente. No. Più preciso. Secco. Una punizione da quaranta metri. Inutile mettere le dita a far da barriera.
Scrock.
Questo – immaginatevelo – il rumore. La punta rinforzata dell’anfibio addosso alle costole di Magdalena. Fracassate. Una fitta atroce e le braccia giù, adesso. D’istinto, a proteggere il cuore da quel dolore. E gli altri su, allora, a mirare di nuovo alla testa, gli uomini in divisa. Manganellate e calci e insulti e risa. Ogni gamma possibile del dolore. Tutti i picchi possibili di sofferenza, quella notte, per Magdalena.
Racconta senza dare nemmeno un’occhiata all’obiettivo. Guarda con intensità verso il basso, in diagonale. Come se nell’angolo della sua stanza di Amburgo la stessero riproiettando adesso la sequenza di quella notte, e lo stesse vedendo solo ora tutto quel sangue che le colava in faccia dalla testa squarciata. Nessuna traccia di rosso, invece, prima, dentro al buio del finestrino, né qui, dentro la stanza 914, la luce spenta. Ma la sua faccia piena di sangue, l’ho appena rivista nel libro, una foto scattata mentre la portavano fuori dalla scuola. La bocca piegata in quello che credevo un lamento. E forse l’ho sentito sul serio, il suo lamento, quella notte. Ammesso che riuscisse a lamentarsi, perché il volto nella foto è quello di una ragazza incosciente, con la testa fracassata e i polmoni sfondati dalle costole spaccate a calci. Poi ce n’è un’altra di foto, presa da dietro, si vede la testa, centrata dal flash del fotografo, e lo squarcio, giusto in mezzo all’inquadratura, dove i suoi capelli rasta si dividono. Il sangue fa di un blu ancora più scuro la borsa blu della Puma che le hanno messo come cuscino. Si vede la faccia trafelata dell’infermiere di mezza età. Preoccupato.
Nelle due foto Magdalena è stesa sulla barella. Non come prima, riversa a terra, gli anfibi degli uomini in divisa davanti agli occhi. Avanti e indietro, come i piedi dei calciatori. Tiri di destro. Di sinistro. Il suo corpo come un pallone. Un destro al ginocchio, stum. Un sinistro alla testa, stum. Un rigore dritto in faccia, stum. E quella punizione al petto, tremenda, crack. Poi, finito il gioco, le loro mani, i loro guanti fra i capelli rasta. Come fossero briglie. Magdalena tirata su, di peso. Scaraventata contro il muro. Trascinata giù per le scale. A corpo morto. E lei, lucida, le mani davanti ai denti, al viso, e quel suo macabro conto alla rovescia. Conta i gradini, tum, tum, tum, una botta a ogni gradino – quanti ancora? – e ogni gradino un colpo. Al collo, ai gomiti, al petto – ancora – alle ginocchia. Un dolore unico. Il suo corpo è come un gemito assoluto, un pennello intinto di rosso che lascia dietro sé le macchioline che io vedrò la mattina dopo, che riprenderò con la videocamera senza sapere che era il suo sangue. Tracce del suo passaggio, espurgo di quel gemito. Tum, tum, tum, altri gradini – ma quanti ne mancano? – altre botte, altre macchioline rosse a scandire il percorso verso l’arrivo, tum, tum, tum, prima del colpo finale. Improvviso, veloce, devastante. Sulla testa.
Stock. Dissolvenza a nero. Black.