Charlie Hebdo ritorna in edicola
Da ieri è di nuovo in edicola Charlie Hebdo. Tornerà alla sua cadenza settimanale. Lo si può acquistare anche su tablet o smartphone attraverso l’applicazione che porta il suo nome. Dopo la strage del 7 gennaio scorso, mi è stato chiesto di scrivere un commento. Ho preso tempo, ho letto e ascoltato tanto, poi alla fine ho scritto, anche perché mi sembrava un’alibi quella del “non ci sono parole”. Prima ho buttato giù degli appunti. Questi.
Sto scrivendo queste righe con una matita comprata a Parigi, al Centre Pompidou. Anche il quaderno su cui sto scrivendo l’ho preso lì. Ci scrivo, ma sarebbe uno di quei quaderni da disegno. Non sono mai stato capace di disegnare, ma adesso mi piacerebbe poter fare un disegno dal tratto leggero, sottile, come i disegni di Wolinski, un segno quasi invisibile, pieno di delicatezza. Perché appena ti metti a scrivere, invece, in un momento come questo, quel che ti viene da dire davanti al foglio bianco, è: non ci sono parole. E non ci sono perché non sappiamo trovarle. Non abbiamo neanche la minima idea di dove cercarle. E come. In tanti ci stanno provando, anche se provare significa una presa di coscienza. Certo, c’è chi è costretto a farlo, i cronisti, i commentatori. Ma se la cronaca può – e deve – limitarsi all’accaduto, il commento deva andare oltre, deve suggerirci, peovare a spiegarci. Tanti di loro hanno speso parole a vanvera, perché in questi casi – in questo caso, soprattutto – sono i luoghi comuni a sgorgare subito. Ridicoli salvagenti capaci di tenerti a galla per un po’, forse, ma che poi ci tirano giù, sotto, ancora più a fondo di prima. Non tutti, però, sembrano in grado di rendersene conto. Solo che poi, noi che scriviamo, dobbiamo farlo. E allora un minimo di giustificazione c’è. Un’alibi fragile. Chi scrive forse non potrebbe nemmeno permettersi di dire: non ho parole.
Allora ci provo.
A dire intanto che la reazione che c’è stata in Francia dovrebbe servirci di lezione. Anche se poi si tratta di una reazione a noi estranea, improponibile per più motivi. Il primo: il valore della laicità. Dal Presidente Hollande fino a qualunque cittadino sceso in piazza abbiamo sentito pronunciare le parole: dobbiamo difendere la laicità e i valori della Repubblica. Laicità, Repubblica, parole quasi sconosciute dalle nostre parti. Per questo il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione repubblicana di domenica 11 gennaio. Perché il FN rinnega i valori fondativi della Repubblica. Vuole cancellare quelle tre preziose parole che stanno all’ingresso di ogni edificio scolastico di Francia: Liberté Egalité Fraternité. Da noi, l’impresentabile Matteo Salvini, alleato in Europa della Le Pen, viene invitato a ogni trasmissione televisiva, e i suoi obbrobriosi pensieri elevati al rango di normalità da giornalisti incapaci, che godono nel vederlo puntualmente insultare il suo interlocutore di turno, quando invece i loro colleghi francesi, quando si trovano davanti a Marine Le Pen, non fanno che incalzarla, contraddirla, criticarla. Il vero giornalismo è il primo baluardo contro la demagogia, i luoghi comuni. Ma non c’è solo questo: Roma è stata l’unica capitale a non essere scesa subito in piazza la sera di mercoledì 7 gennaio in segno di solidarietà a quanto accaduto a Charlie Hebdo. La televisione italiana non ha fatto alcuna edizione speciale. Non bastasse tutto questo, c’è anche un altro piccolo particolare: da noi un settimanale come Charlie Hebdo, o come Le Canard Enchaîné, non esistono. Certo, c’è stato Il Male, e poi Cuore, ma sono state esperienze fallite in fretta. Motivo? Forse proprio il fatto di essere estranei alla laicità, alla vera libertà di espressione.
Poi, ho scritto l’articolo, che è uscito martedì 13 gennaio sul Corriere del Veneto.
Il silenzio. Ce ne sono stati tanti, negli ultimi giorni, di momenti di silenzio. E sappiamo quanto siano rari, quanto stiano diventando sconosciuti, e anche quanto li evitiamo. Perché è in silenzio che dovremmo guardare dentro di noi, interrogarci, provare – provare – a capire. Perché è in silenzio che si dovrebbe leggere, approfondire, studiare. Le marce e i raduni silenziosi che si sono svolti in questi giorni in tutto il mondo, erano l’unica risposta immediata alle stragi di Parigi. Il silenzio, le matite, e quei fogli con su scritto Je suis Charlie, come domenica in Campo Manin, a Venezia, dove un migliaio di veneziani, senza parole, hanno reso omaggio alle vittime e rivendicato la libertà di espressione. O a Treviso, con quelle ragazze musulmane che mostravano, in silenzio, le vignette di Charlie Hebdo. Il silenzio, però, in questi giorni, è stato anche una specie di rifugio per tanti di noi che per mestiere scriviamo. Siamo stati in silenzio perché trovare le parole adatte era troppo rischioso. Chi vi era costretto, cronisti, giornalisti, corrispondenti, dimostrava un’evidente difficoltà, il timore della banalità, della retorica, della svista emotiva. A parlare ci hanno pensato invece, come al solito, i politici, i demagoghi, gli xenofobi. I primi hanno parlato di guerra in atto, i secondi e i terzi non hanno perso l’occasione offerta su un piatto d’argento pieno di sangue per ribadire i propri slogan, il proprio odio, la propria semplificazione inutile e al contempo pericolosissima. Che non si tratti di guerra o di terrorismo internazionale è evidente dalle carte d’identità degli assassini, tutti nati in Francia, cittadini francesi accomunati sì dalla religione, ma soprattutto dall’essere cresciuti in quelle famigerate banlieue diventate terreno fertile dove attingere manodopera da parte dei fondamentalisti. Ecco, forse le parole più adatte non sono né guerra, né terrorismo, ma profondo e tragico disagio urbano e sociale, che è ancora peggio. Perché come fai adesso a districare quella matassa confusa fatta di ignoranza, di violenza, di fanatismo religioso? In quegli ambienti, oggi, quanti di quei giovani hanno gli strumenti per potersi difendere dalle lusinghe dei fondamentalisti? E come individuarli? Queste sono forse le domande più urgenti da porci. Domande che valgono per tutti, anche per noi italiani. E quanto sarebbe bello che le risposte si potessero trovare proprio nella reazione messa in atto da una società civile che, laddove ha la possibilità di affidarsi a basi storicamente solide come in Francia, ha difeso i valori irrinunciabili della democrazia, della convivenza, della società multietnica e multireligiosa scendendo in piazza. Cultura, convivenza, educazione, libertà di espressione: forse è solo questo l’antidoto a ogni barbarie, a ogni fondamentalismo.