Quel giorno, la mia memoria

Era il 25 gennaio 2001. Mi trovavo a Trieste per il Trieste Film Festival. Insieme al mio amico Corso Salani, bravissimo regista che ci ha lasciato troppo presto, decidemmo di visitare la Risiera di San Sabba. Entrambi non ci eravamo mai stati. Entrambi per gli stessi motivi. Dopo quella visita, scrissi questo reportage che uscì il 27 gennaio sul Piccolo, il quotidiano triestino, e sul Manifesto. Non scrissi di Corso, nel testo. Anche perché, dentro, decidemmo di dividerci, di fare percorsi differenti. Di fare la nostra visita ognuno per proprio conto. Soli. Sono passati dodici anni, e il fetore fascista, che anche allora si faceva sentire (c’era un tizio candidato dell’estrema destra che aveva fatto dei manifesti con la foto della sua stretta di mano con Haider e, sotto, il provocatorio slogan Haider sindaco), quel fetore oggi è ancora più intenso. Insopportabile. Oggi che i neo fascisti possono tranquillamente presentare le loro liste alle elezioni scandendo slogan violenti, razzisti e antisemiti. Da piccolo credevo che un giorno non sarebbe stato più necessario stare all’erta. Che l’orrore di quegli anni col tempo sarebbe stato riconosciuto e rifiutato da tutti. Ma ero piccolo, e ingenuo.

È il monumento nazionale che nessuna città al mondo vorrebbe avere. L’unico che il visitatore va a vedere dopo averci pensato a lungo. E dopo averci pensato a lungo, spesso, decide poi di non andarci, là dentro. Dentro la Risiera di San Sabba, a Trieste.
Non lo sapevo nemmeno, un paio di giorni fa, che oggi sarebbe stato il giorno della memoria. Non me lo ricordavo. La memoria individuale non ha bisogno di giornate specifiche per ricordare. Il ricordo – se sai, se conosci – ti assale in ogni momento, in ogni luogo. Non in un giorno particolare.
E l’altro giorno, per l’ennesima volta in visita a Trieste, smetto di rimandare.
Vado. Piove. Sembra come se il tempo – quello atmosferico – avesse deciso di dare la scenografia più adatta a questa visita. Mi accoglie il custode. Mi domando cosa si sente, cosa si prova a essere il custode di questa memoria. Mi porge la brochure che intasco subito. La guarderò più tardi, non voglio leggere niente, adesso.
Subito, sulla sinistra, la cella della morte. Non ci fosse stata la targa fuori a dirmelo, si tratterebbe di un enorme stanzone vuoto e basta.
Sono proprio questi vuoti assoluti a riempirti la mente. Sono vuoti che mentre cammini con cautela su quella superficie, sai bene di cosa, di chi e come erano riempiti. E dentro di te qualcosa rimbomba senza sosta. E non sono certo i passi, qua dietro, del ragazzo entrato qualche minuto dopo di me.
Venivano gasati qui i prigionieri. Oppure finiti a colpi di bastone sulla testa. Se qualcuno mi guardasse muovermi da fuori, credo che vedrebbe uno camminare come sulle uova.
Poco più in là, le celle. Diciassette. Dove venivano rinchiusi in sei — leggerò più tardi, nella brochure. Potrei descrivere le porte, le serrature, le panche che si intravedono all’interno, le travi sul soffitto, i fiori — finti — appesi alle colonne. È l’unica cosa che potrei fare, qua dentro. Descrivere. Quello che si prova è un forte senso di schiacciamento, qualcosa che ti preme da sopra e da sotto.
Fuori, c’è una specie di canale di metallo scavato sul cemento. Non troppo profondo. Come per il resto, la brochure che ho in tasca e che leggerò più tardi, a freddo, mi avrebbe spiegato di cosa si tratta. Ma adesso non so proprio cosa sia, sento solo di doverlo scavalcare, di non doverci mettere il piede sopra, cosa che verrebbe facile, se non addirittura camminarci dentro. Così, allargando il passo come si fa quando si scavalca una pozzanghera, passo sopra al canale sotterraneo che univa il forno crematorio alla ciminiera. Mi farà bene saperlo solo più tardi, mi dico. Camminando nel cortile, avvicinandomi all’impronta del forno crematorio, capisco perfettamente quella mia amica di Trieste che non ha mai voluto entrare qua dentro.
Nel museo ci sono foto e manoscritti che vorrei guardare in rassegna, senza soffermarmi su alcuno. Oppure incrociare gli occhi e provocare una sorta di dissolvenza opaca capace di sfocare tutto, consapevole di non poter comunque cancellare niente. Intuisco scritture, cifre, foto ingiallite. Faccio per staccarmi il prima possibile dalla traiettoria che rende riconoscibili nomi cognomi e volti, ma poi non ce la faccio a non bloccarmi davanti alla foto di un giovane studente di architettura, arrestato pochi giorni prima della liberazione e sparito anch’egli nella cenere il cui fantasma – o l’ologramma – qua dentro e forse in tutta la città, ti attraversa da parte a parte in ogni momento. Leggo per intero la sua lettera a Laura, la fidanzata, e ora basta. Lascio perdere tutto il resto. Vado verso l’uscita ignorando altre bacheche e le teche con altri documenti.
Mi fermo solo davanti al quaderno dei visitatori. In tali casi, in luoghi però ben diversi da questo, si lascia un commento oltre la firma. Sfoglio le pagine e noto che – meno male – tutti mettono solo data nome e cognome. Provo la tentazione di andare a vedere in quale periodo sia iniziato il quadernone, oggi arrivato alla sua ultima pagina. Ma temo davvero di risalire di troppi mesi, magari di anni. Temo di avere la conferma che questo monumento sia uno dei meno visitati del nostro paese. Firmo e lascio uno spazio bianco per il ragazzo che sta facendo il giro che io ho finito.
All’uscita, il canalone mi riporta alla luce e alla — ma si potrà dire? — normalità. Che si evidenzia subito, imponente, nelle strutture dello stadio. Passo davanti a una palestra, a un ipermercato, all’ingresso del Nereo Rocco, davanti ancora una volta ai manifesti che inneggiano a Haider sindaco e che mi provocano adesso un senso profondo di nausea e mi ritrovo davanti a un’osteria che sembra uscita da quegli anni. Mi precipito dentro. Ancora non ho voglia di riprendere contatto con la quotidianità del nuovo millennio. E là dentro, davanti a un bicchiere di vino, a delle pareti che dovevano essere così anche allora, seduto di fronte alla prima pagina dell’Arena di Pola che intitolava “O l’Italia o l’esilio”, scelgo di restare ancora un po’ dentro a un passato che molti — troppi — vogliono cancellare.