Lo scempio del Lido

Questo mio articolo è uscito l’8 settembre 2011 sul Corriere del Veneto. Qualcuno dice che sia servito da spunto agli occupanti del Teatro Valle, per la loro giusta e sacrosanta performance di protesta, lo stesso giorno, quando hanno strappato i teloni che maldestramente tentano di nascondere allo sguardo della gente quello scandalo costato 37 milioni di euro. Non so se è vero. Ma se lo fosse ne sarei orgoglioso. Chissà se qualcuno indagherà mai, su questa grande opera – a cura della Protezione Civile – trasformatasi, a stretto giro, nell’ennesimo scandalo italiano.


È uno dei posti più osservati della Mostra, pur essendo il meno ufficiale, il più improvvisato. Una feritoia ritagliata sul telone che nasconde il cantiere abbandonato dell’ex nuovo palazzo del cinema. Bisogna piegarsi leggermente in avanti, come se stessimo per accostare l’occhio alla più improbabile delle cineprese. E là incomincia ogni volta il film. C’è questa distesa di plastica bianca, irregolare, che asseconda gli avvallamenti del terreno. Nasconde lo scempio e sembra il set di un film di fantascienza. Anzi, potrebbe sembrare proprio un momento di Lo stato delle cose, il film di Wim Wenders che vinse qui al Lido nel 1982. Quell’anno, nel boschetto ora raso al suolo, i ragazzi appassionati di cinema piantavano le canadesi e stendevano i loro sacchi a pelo. Il cinema come libertà allo stato puro (delle cose, e non solo). Prima di andare a dormire, terminate le proiezioni, quei ragazzi se ne stavano sulla scalinata del Casinò a commentare i film del giorno, a bere una birra, ogni tanto spuntava una chitarra. Su quella scalinata sono nati negli anni progetti di film, sbocciati amori, su quella scalinata hanno fatto gavetta i migliori critici di tutto il mondo, generazioni di cinefili si sono scambiate il testimone, e potevi chiacchierare con Stefania Sandrelli, o Sandrine Bonnaire o trovarti seduto accanto, sullo stesso scalino, a Valeria Golino. Ascoltare Marco Ferreri discutere con Bernardo Bertolucci. Poteva succederti di fare da sfondo ai collegamenti in diretta di Lello Bersani. Anche quella scalinata è sparita, oggi. Una inutile devastazione, una delle tante grandi opere abortite, il nuovo palazzo. Viene da domandarsi se quando si prendono decisioni evidentemente fallimentari, ci si interroghi anche sull’aspetto sentimentale (oltre che urbanistico, sociale, ambientale), del luogo che si va a cancellare con tanta disinvoltura. E bene ha fatto la Biennale, a decidere di ripartire dall’esistente, iniziando dalla Sala Grande, ristrutturata con tocco attento, delicato, sobrio. Magari, per l’anno prossimo si potrebbe pensare a lasciare finalmente libera, spoglia, la facciata del palazzo che, visto nei filmati d’epoca, non è poi così brutto. Anzi. Ripartire da lì, senza proclami pomposi e prime pietre inutili e che restano uniche. Quel cratere, che da due anni offende il Lido e lo sguardo di tutti, è uno dei tanti simboli della devastazione complessiva di questo paese. E la presenza dell’amianto c’entra fino a un certo punto. Quando a quella feritoia si accosta lo sguardo degli stranieri, sai già che quando si distaccherà sarà uno sguardo allibito, con una evidente inclinazione al compatimento nei nostri confronti. Ma si sentono feriti anche loro, perché la Mostra del Cinema appartiene a tutti e, di conseguenza, pure questi luoghi sono casa loro. Accanto alla finestrella che si apre sull’obbrobrio, un cartello: qui giacciono 37 milioni di euro. Un cantiere abbandonato che dovrebbe fare venir voglia di urlare, perché dentro a questo assurdo set involontariamente cinematografico, alla fine, un urlo di rabbia ci starebbe benissimo. Non l’avessimo esaurita da tempo, ormai, quella rabbia. E il titolo del film, alla fine, potrebbe essere solo uno. Rassegnazione.
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