L’Humanité. Invité de la semaine.

Il quotidiano francese L’Humanité, in occasione dell’uscita in Francia del mio nuovo romanzo, Sentimenti sovversivi (Sentiments subversifs, Meet, 2010), mi ha chiesto, dal 15 al 19 novembre scorso, di essere l’ospite della settimana. Ecco i miei interventi, sia in italiano che in francese, tradotti dal giornalista Thomas Lemahieu.

Lunedì, 15 novembre 2010.
“Avrei voluto scrivere una storia d’amore, quando ho iniziato questo libro, la prima volta che sono arrivato qui, ma oggi è impossibile, credo, per uno scrittore italiano, riuscire ad astrarsi dal senso di repulsione, da quella volgarità diffusa che, oggi, è il biglietto da visita del mio paese”. È la frase che sta sulla quarta di copertina del mio nuovo romanzo, Sentiments subversifs. Il “qui” è Saint-Nazaire, dove quel romanzo è iniziato, dove l’ho finito e dove uscirà, bilingue, fra pochi giorni. Il “paese”, invece, è l’Italia. No, non è per niente facile raccontarla, l’Italia, oggi. Ammesso che ne valga la pena, di raccontarla. Per uno scrittore è certo più facile e conveniente optare per trame intimistiche, o per il noir. Gomorra a parte, ovviamente. Io, non riesco a far altro. Scrivo del mio paese nei libri e sui giornali da più di quindici anni e ogni volta mi dico che sarebbe meglio lasciar perdere. Ma poi – ogni volta – non ci riesco. Racconto il mio paese oggi per cercare di capirlo, non di farlo capire. Questa volta ho provato a farlo dalla Francia, come mi chiese un giorno Patrick Deville, e il romanzo, per piccola provocazione intellettuale, in una specie di autocensura consapevole – così frequente oggi nel mio paese, anche nell’ambito dell’editoria – uscirà soltanto qui. I lettori italiani dovranno faticare un po’ per procurarselo. Così com’è stato faticoso, da qui, dalla Francia, guardare dentro di me e dentro al mio paese oggi. Per raccontare alla fine di una storia d’amore, del protagonista verso Teresa, verso l’Italia – nonostante tutto – e verso due città: Venezia e Saint-Nazaire. Perché, alla fine, è pur questo che deve fare uno scrittore. Raccontare. E raccontare la propria epoca in un momento di emergenza – com’è per l’Italia, un’emergenza che dura da quasi vent’anni – può diventare l’unico modo possibile, oggi, almeno per me, di fare letteratura.


Martedì, 16 novembre 2010.
Ho dovuto camminare molto prima di scrivere questo testo. È camminando, spesso, che si inizia a scrivere, i passi setacciano le parole e poi, alla fine, basta sedersi – qui, in questo cafè di Montparnasse – e la storia si srotola. La storia di sabato mattina, quella della proiezione al Cinema Panthéon della videolettura di Ça change quoi, e il dibattito successivo. Se è difficile raccontarla in un romanzo, l’Italia di oggi, è maledettamente più difficile parlarne in pubblico. Soprattutto per un romanziere, che non a caso ha scelto la scrittura per esprimersi. La curiosità urgente, qui in Francia, è come mai l’Italia sia finita in un tunnel che sembra infinito. E tu ci provi, parti da quei giorni del G8 del 2001, il biglietto da visita del governo Berlusconi, del suo modo di intendere la democrazia e la contestazione (violenze della polizia ci sono state di recente a Brescia e nei dintorni di Napoli), e arrivi fino a oggi. Ma no, non è affatto facile. Ci provi, perché ciò che arriva, fuori dall’Italia, è un’infima parte di quanto sta accadendo. Dirlo in una lingua che non è la tua, poi, appiattisce le sfumature. Ma ti sforzi. E alla fine succede quasi sempre la stessa cosa. Un francese che dice che Sarkozy c’est pareil (e io che gli propongo di fare scambio di leader oggi stesso, ma a un patto, che voi francesi non potete cambiare idea), e un’italiana che quasi indignata dice che non bisogna dipingere l’Italia in questo modo, che c’è un’Italia bella e che lavora e che tutti i capi di stato, alla fine, vanno a puttane (difficile controbattere che far liberare una minorenne fermata per furto spacciandola come la nipote di Mubarak, non è da uomo di stato, ma tant’è). “Fai cattiva pubblicità”, insomma. Lo stesso punto di vista di Berlusconi quando dice che strozzerebbe gli scrittori che raccontano di mafia, di malavita. Questo è il berlusconismo che si è incistato in noi: la semplificazione, e l’abitudine all’immoralità. Un sentimento losco. E invincibile, temo.


Mercoledì, 17 novembre 2010.
È fin troppo facile vedere nel crollo di Pompei e nell’alluvione disastrosa in Veneto il simbolo dell’Italia di oggi. Troppo facile, per chi, appunto, ha in sé la capacità di decifrare, di osservare, di capire. Una capacità smarrita via via da gran parte di noi italiani. Un popolo assuefatto a una visione del mondo appiattita, volgarizzata, banalizzata, fatta a immagine e somiglianza dell’uomo che comanda il paese (e che ieri ha avuto il coraggio di proporre il nome della figlia Marina come suo successore), uno stare al mondo che ricalca le fiction e i teatrini delle sue imbarazzanti televisioni. Altrettanto facile vedere nel suo volto rifatto, nei suoi capelli finti (o nei ritocchi chirurgici sui corpi di sua figlia e di alcune sue ministre), il declino ineluttabile di un paese. Un paese che agogna di assomigliare al suo capo, e che perciò diventa arrogante e patetico. Non l’intero paese, ovvio, ma quanto basta per consentirgli vittorie elettorali a ripetizione. Del crollo di Pompei alla maggior parte degli italiani importa poco o nulla. La cultura non è mai stata un punto di riferimento per noi. Mai stata un ambito da condividere e in cui crescere insieme e riconoscersi. Men che meno oggi, davanti a un governo che la irride, con un ministro che si vanta di non leggere libri e che ti dice che se hai fame non puoi certo mangiare pane e Divina Commedia. In sedici anni di potere, non lo si è mai visto, Berlusconi, inaugurare un anno accademico, una Biennale d’arte o del cinema. Lui, è noto, usa altre bellezze per “rilassarsi”, come ha dichiarato dopo l’affaire Ruby. E la maggior parte degli italiani è come lui, ricalca pari pari questa infima visone della vita. L’Aquila, distrutta dal terremoto e Pompei che crolla siamo noi, è l’Italia. Il resto del mondo piange, davanti a quelle macerie. Noi italiani, tout simplement, ce ne freghiamo. A noi non interessa il bello, ma l’abbellimento, che, alla fine, è la negazione stessa della bellezza.


Giovedì, 18 novembre 2010.
Sono appena uscito da un negozio, qui a Parigi, dove nel dicembre del 1980 comprai il mio primo taccuino, con la consapevolezza e la sventatezza che ci avrei scritto una storia, lì dentro. Credevo lo avessero chiuso, non l’avevo più ritrovato, forse nemmeno cercato, tutte le volte che sono ritornato qui. E invece oggi, per caso, ho visto la vetrina, con su scritto che L’Ecritoire compie trent’anni. Fui uno dei primi clienti, dunque. Non posso certo dire che il mio rapporto con la scrittura intesa come mestiere sia iniziato là dentro, mentre sceglievo formato e tipo di carta del taccuino. Però quel taccuino, ce l’ho sempre in mente. Per fortuna ho dimenticato la storia che ci scrissi sopra. Poi, negli anni, c’è stata la scoperta della narrativa francese, il nouveau roman, e poi Jean Echenoz, Patrick Deville, Jean-Philippe Toussaint. Poi gli inviti in residenza, qui in Francia, la Mel e la Meet, l’incontro con Bernard Comment, la pubblicazione dei miei libri, gli articoli sull’Humanité, di cui conservo ancora il numero speciale – ingiallito – dedicato ad Aragon, quando morì. Poco a poco ho scoperto che qui, la letteratura non solo ha un senso, ma è protetta e amata. Rispettata anche da coloro che magari non hanno voglia o non se la sentono di frequentarla. Certo, magari a volte c’è qualcuno che ci prova, dall’alto, a metterla in discussione. Ma non mi pare riesca mai a ottenere gli strepitosi risultati che, nel mio paese, il potere ha ottenuto mettendo la cultura nell’angolo delle cose inutili, e indicandola spesso come qualcosa di dannoso.
In quel taccuino, trent’anni fa, qua in Francia, iniziai un percorso che ancora continua. Perché poi si parte così: un quadernetto che ti chiama da sopra uno scaffale, una stilo, o una matita, o la classica Bic, e via. Come il taccuino che ho appena comperato nel negozio che credevo perduto, così diverso da quello di trent’anni fa, così come sono diverso io, diversa Parigi. Chissà che cosa ci scriverò, là sopra, stavolta.


Venerdì, 19 novembre 2010.
In questi giorni mi è stato chiesto spesso quali fossero i sentimenti sovversivi di Sentiments subversifs. Il titolo è arrivato così, con un clic, come quando in voi si accende un sentimento. Difficile trovare il modo di motivarlo, un sentimento. Ho risposto perciò in vari modi. Ora però, di nuovo in movimento, su un Tgv diretto a Saint-Nazaire, per il Meeting 2010, guardando la strepitosa campagna francese che scorre fuori – e che pur in una giornata grigia di un opaco autunno sa offrire alle tue diottrie colori inattesi – forse una risposta l’ho trovata. Il dizionario Larousse alla voce “sovversisvo”, dice: “Qui est de nature à troubler ou à renverser l’ordre social ou politique”. Naturale dunque che i miei interlocutori si aspettassero che la sovversione dei miei sentimenti portasse con sé qualcosa di estremista. Forse anche, sì. Ma oggi in Italia – e nel mio romanzo – essere sovversivi ha in sé qulcosa di paradossale e anomalo. La sovversione, oggi, in Italia, è essere normali. Sei sovversivo, oggi, se credi ancora nella Costituzione, se pensi che la morale e l’etica siano dei valori irrinunciabili. È sovversione credere che una coppia non sposata debba avere gli stessi diritti di una coppia sposata. In Italia oggi è sovversivo contestare e criticare. È sovversivo amare anziché possedere. È eversivo starsene seduto in un cafè parigino, durante la pausa pranzo, e notare che donne e uomini, giovani e no, si muovono normalmente dentro a abiti magari anche eleganti ma semplici, senza ostentazioni, senza maquillage aggressivi o griffe da esibire al mondo con un malsano senso di non so bene cosa, come avviene quotidianamente nel mio paese e a ogni livello sociale. Sovversione è esigere di essere rappresentato da una classe politica almeno decente, democratica, virtuosa. E sovversivo è infine credere che la scrittura possa davvero aiutare a cambiare rotta, a invertire una deriva sconcertante. È sovversivo credere nella letteratura.