Vocabolario di Fahrenheit. Le mie parole.
Da lunedì 9 a venerdì 13 agosto 2010 sono stato ospite della trasmissione di Radio3, Fahrenheit. Sono stato l’autore delle voci della rubrica Vocabolario di quella settimana. Tre minuti al giorno. Ecco i testi integrali delle cinque parole che ho scelto.
Impassibilità
Vorrei incominciare dalla prima parte del titolo del mio nuovo libro, Impassibili e maledette, pubblicato da Limina, che è sì un libro sul calcio, ma non solo. Il calcio è spesso un pretesto per raccontare altro, per dare luce alle cose partendo dal più enorme luogo comune del nostro paese. Il calcio appunto. Dunque, dicevo, vorrei partire dalla parola Impassibilità che secondo il dizionario Devoto-Oli, significa “Atteggiamento impenetrabile d’indifferenza o d’insensibilità”. Impassibili, nel libro, sono le espressioni del calciatore Andrea Pirlo, che ha sempre la stessa faccia sia che calci il rigore della finale dei mondiali a Berlino nel 2006, sia che tiri un calcio d’angolo allo stadio Granillo contro la Reggina. Impassibile è infatti, sempre secondo il Devoto-Oli, “chi non lascia trasparire alcun turbamento o alcuna emozione”. E, aggiungo io, magari soltanto in apparenza. In letteratura, impassibili, ognuno a modo suo, sono per esempio il Palomar di Italo Calvino e il Bartleby di Herman Melville. Al cinema lo sono invece Buster Keaton e Jacques Tati. Per non parlare, poi, del teatro e dei libri di Samuel Beckett. Mi ha sempre affascinato colui che sa essere impassibile. Soprattutto gli impassibili che poi, alla fine, come Andrea Pirlo, riescono a fare. Dove l’indifferenza – apparente, ripeto – è un propellente. L’impassibilità, poi, sa essere discreta, a volte invisibile. Un pregio in quest’epoca dove l’apparire, l’esagerare, il mostrarsi sembrano essere l’unica chiave per l’ottenimento di un risultato (e non necessariamente sportivo, il risultato). Ai tempi della scuola, invidiavo i miei compagni di classe o di studi capaci di affrontare qualunque interrogazione, compito o esame che fosse con una soave impassibilità. Perché anche fosse stata soltanto apparente, quell’impassibilità era un bel valore aggiunto, volete mettere, rispetto a quelli che, come me, arrivavano davanti all’insegnante tutti ansimanti, sudaticci e praticamente privi di unghie, smangiucchiate nell’estenuante – e nient’affatto impassibile – attesa. Ma l’impassibilità, specie se collettiva, può rasentare, a volte, la catatonia. Catatonia, per il Devoto-Oli, è una “sindrome psicotica caratterizzata dal persistere in un atteggiamento corporeo assunto spontaneamente o per imposizione”. Ecco, mi domando se noi italiani, da qualche anno a questa parte, immobili nell’assistere al disastro complessivo in atto nel nostro paese, siamo più impassibili, indifferenti, rassegnati, o catatonici. E se lo siamo solo apparentemente o pienamente. Secondo voi?
Un saluto e a domani, sempre qui a Fahrenheit, da Roberto Ferrucci
Cambiamento
La parola cambiamento è per me legata a qualcosa che viene da lontano, a tutte quelle volte (quante, centinaia? migliaia?) in cui uno più grande diceva a me, più piccolo – bambino, adolescente, giovane – che dovevo cambiare. O che, comunque, sarei cambiato. E ogni volta, quel devi cambiare o quel vedrai che cambierai, mi provocavano ansia, angoscia. Cosa dovevo fare per cambiare? Quali imprese avrei dovuto compiere? E, ammesso e non concesso che ci fossi riuscito, che cosa sarei diventato? A me, in tutta sincerità, pareva di andar bene così com’ero. Cambiare mi sembrava al contempo qualcosa di enorme e di rischioso. Poi, avrò avuto diciotto, vent’anni, non so, bastò un’intervista a Italo Calvino in televisione. Era l’epoca in cui alla tv si facevano trasmissioni intere dedicate a questo o a quello scrittore. E in quella lunga intervista, Calvino, a un certo punto, disse che noi non cambiamo mai, che siamo quel che siamo e lo resteremo. Piuttosto, aggiunse, impariamo a conoscerci meglio giorno dopo giorno, questo sì, ma non significa cambiare. Un adeguamento graduale a noi stessi, insomma. Ancor oggi non saprei dire se avesse ragione, ma so che quella affermazione mi piacque e alleggerì le mie ansie. Fu come se la saggezza di un nonno che non ho mai conosciuto raggiungesse virtualmente la curiosità di quel nipote che voleva sapere della vita, dei suoi tranelli, le trappole tese a ogni svolta. Lasciai così volentieri che la parola cambiamento venisse usata, usurpata e svilita dagli slogan politici e commerciali più ovvi, e lasciai invece che la mia vita, anziché cambiare, si adeguasse a me stesso, anno dopo anno, in un percorso apparentemente meno complicato, più soffice. Solo apparentemente, però. E, soprattutto, mi rassegnai a vivere in un paese dove se il cambiamento – civile, sociale, politico – esiste, è sempre un cambiamento in peggio, un’involuzione dei valori, dei pensieri, dei comportamenti. Una parola che non mi è mai piaciuta, alla fine, cambiamento, quando è usata e abusata a piacimento nella sua accezione semplificata, demagogica. Poi, un giorno, il cambiamento, vero o presunto, è riapparso nella mia vita, non più in forma esistenziale ma in forma letteraria. Un romanzo la cui stesura ha richiesto degli anni, la difficoltà a individuare un titolo, a “sentire” quello giusto e poi un giorno, dopo anni, tack, eccolo lì, nitido, preciso, adatto. Cosa cambia. Raccontare la Genova del G8 2001 e provare a capire, anni dopo, attraverso il protagonista, cosa cambia. E appena apparso, appena scritto a penna poco sopra la prima riga del romanzo, ho ripensato alle parole di Italo Calvino, che dal giorno in cui le avevo sentite, avevo fatto mie. E la parola cambiamento, è ritornata allora a ossessionarmi per un po’, il tempo di adeguare la sua nuova presenza a una coerenza di trama, di storia, di personaggi e, soprattutto, di finzione. Coerenza letteraria che ha così mantenuto intatta quella esistenziale. La lezione di Calvino del non cambiamo mai.
Un saluto da Roberto Ferrucci e a domani.
Videoscrittura
A dire il vero questa mattina avevo iniziato con un atto di superbia. Parlarvi niente meno che di scrittura, parola con cui ogni narratore ingaggia, quotidianamente, un corpo a corpo continuo. Avrei voluto parlarvi dell’atto della scrittura in sé, del gesto fisico. Avevo perciò iniziato a scrivere di calligrafia, di penne (chi usa la stilografica, chi la matita, chi la bic), di certi tipi di carta (chi preferisce i fogli a quadretti, chi a righe, chi completamente bianco). Poi, però, mi sono accorto – non ci si fa nemmeno più caso, ormai – che queste cose le stavo scrivendo non sul mio taccuino, con la stilo, ma su una videotastiera. Già, nemmeno una tastiera fisica, di plastica o roba del genere. No, in questo caso le lettere e i simboli sono fatti di luce e stanno qui, nella parte inferiore del display. Videoscrittura attraverso una videotastiera dunque, e conseguente videolettura. Da qualche mese mi sono abituato a scrivere in questo modo. Non so se, con l’arrivo sul mercato di tale aggeggio si possa parlare di rivoluzione della scrittura. Ma la mia, da qualche mese, passato sopra a questa tavoletta, ne esce un po’ rivoluzionata. Una tavoletta che sembra proprio la piccola lavagna di quando eravamo bambini. Gessetti e cancellino. Ricordate? E la frustrazione per non poterci scrivere nessuna storia, là sopra, che non fosse brevissima. Il cancellino – quella specie di spugna nera – aveva sempre la meglio sui gessetti, alla fine. Invece, oggi, scrivo con la luce, o sulla luce. Parole che metto insieme picchiettando le dita sulla videotastiera del display. Meglio, facendole scivolare, le dita, cosa che alla fine – ecco – ti dà la sensazione di accarezzarle, le parole. E mai nella vita avrei potuto immaginare che un giorno, avrei potuto coccolarle sul serio, le parole, oggetto assoluto del mio mestiere. Tutto questo ha aperto ultimamente un dibattito, perché su questa tavoletta puoi anche leggerli i libri, non soltanto scriverli. Che fine farà il libro? Si chiedono in tanti. L’ebook, così come viene chiamato il libro elettronico, scalzerà il libro così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi? Il confronto fra puristi e innovatori è in atto. Il dibattito infuria.
A pensarci bene, il libro – inteso come quell’insieme di carta, colla e inchiostro – è stato il supporto artistico che più ha resistito, immutabile a se stesso, fra tutti. Fotografia, musica, arti plastiche, cinema, hanno ceduto il passo molto prima. Oggi, che silenziosamente e al buio scrivo accarezzando le parole sul display illuminato, forse anche il libro troverà altre forme. E se così sarà non potremmo farci niente, salvo poi magari rivolgerci a Fahrenheit per trovare questo o quel libro fatto ancora di carta. Noi scrittori, comunque, continueremo a scrivere. E poco importa come, perché le storie da raccontare resteranno sempre le stesse, avranno comunque bisogno di parole, siano esse di luce o di inchiostro. Saremo noi a decidere come fruirne, in quale modo leggerle, quelle storie. Perché il bisogno di scrivere racconti e la necessità di leggerli, sono e resteranno immutabili.
Un saluto da Roberto Ferrucci e a domani.
Spudoratezza
La prima parola a venirmi in mente, questa mattina, è stata Dossier. Vi lascio immaginare il motivo. Poi però mi son detto che forse ce n’era un’altra che conteneva anche il termine Dossier. Ed è, appunto, la parola Spudoratezza. Per il dizionario Devoto-Oli, significa “Disgustosa o addirittura scandalosa impudenza o sfrontatezza”. Il suo contrario è discrezione, rispetto. Ora vi chiederei di fare un piccolo sforzo. Anzi, forse nemmeno uno sforzo, a dire il vero, bensì qualcosa che temo vi uscirà spontaneo. Il nostro paese oggi vi evoca, così, all’istante, spudoratezza o discrezione? Ieri, un ministro della repubblica – ma gli esempi da parte del potere attuale potrebbero essere decine e decine – un ministro della repubblica italiana, dicevo, intervistato ieri in tv, ha mostrato alla giornalista, e perciò al paese intero e dunque a noi tutti, il dito medio. Lo ha fatto a una domanda che riguardava l’attuale crisi, lo ha fatto mentre la giornalista gli chiedeva qualcosa che riguardava anche il presidente della Repubblica. Spudorato, no?, sarebbe il commento logico. Spudorato, cioè “privo di senso di vergogna o di pudore”, secondo il Devoto-Oli. Non proprio, ahimè. Attorno a lui, un gruppetto di persone, di fronte a quel gesto, ha sghignazzato. Di sicuro, anche molti di voi, a casa, si sono messi a ridere. Ecco, oggi, di fronte alla spudoratezza, ci mettiamo a ridere. No, non è lui, il ministro della Repubblica che mostra il dito medio alla giornalista, al paese, a noi, a essere spudorato. Siamo noi a esserlo, cittadini trasformati in telespettatori. Noi che anziché indignarci, accettiamo da troppo tempo e altrettanto spudorati ormai, scene del genere. Le condividiamo, o le accettiamo, o ne siamo indifferenti. Privi di pudore, quindi, tanto quanto quel ministro, se non di più. Perché lui il dito lo alza con la consapevolezza, con la certezza che quel popolo a cui lui di continuo si rivolge (e dovrei allora qui parlare della differenza fra popolo e populismo, parole che confondiamo) questo popolo, cioè noi, non oserà dirgli nulla. Accetteremo – spudorati – questo e altri gesti che in qualunque altro paese civile avrebbero conseguenze indiscutibili e inevitabili. Ma non nella spudorata Italia di oggi.
Poi però, alla fine, mi chiedo cosa succederebbe se questa fosse la tv e io alla domanda su qual è la parola di oggi avessi alzato il dito medio al mio interlocutore e perciò a voi. E magari anche a quell’ineffabile ministro della Repubblica italiana. Ma dovrei parlare a questo punto non più di spudoratezza, ma di impunità. Pratica ormai diffusa fra tutti coloro che hanno in mano questo paese. Io, invece, e spero di farlo con discrezione, rispetto e riconoscenza, vi auguro un buon proseguimento di giornata e vi do appuntamento a domani. Un saluto da Roberto Ferrucci
Speranza
Pensavo che per parlarvi della parola speranza non fosse affatto necessario ricorrere al vocabolario. Sappiamo tutti che cosa significa, no? Invece poi mi son detto che in un’epoca in cui stiamo perdendo per strada parole e conseguenti significati a manciate, e in un’epoca in cui molte parole vedono svilito o mistificato il proprio significato, mi son detto che forse anche stavolta era il caso di attingere al vocabolario. E ce ne sono un paio di significati della parola speranza che vanno a mio avviso sottolineati. Il primo: “aspirazione spesso illusoria a un vago avvenire di bene e felicità”, e poi “complesso di ambizioni e di progetti proiettati nel futuro”. Questo, vuol dire speranza, dunque. Ma è così vero? Provate a chiedere a un laureando, a un ricercatore, a un precario, a un cassintegrato, a un disoccupato, a un immigrato, a un pensionato (e sto parlando di milioni di persone), provate a chiedergli quali siano le loro speranze. Risponderanno come il vocabolario?
La speranza è qualcosa che spesso ti viene data. Oppure la chiedi. Dammi almeno una speranza, dicevamo alla compagna di classe del liceo, all’allenatore che ci teneva in panchina, al datore di lavoro col quale avevamo appena fatto il nostro primo colloquio di lavoro. Oggi chi te le dà le speranze? Al contrario, sembrano tutti impegnati in una gara spasmodica a togliertele, ad annientarle, le speranze. E anche quando arriva qualcuno che decide di invertire la rotta, uno come Barack Obama, per esempio, c’è un fronte comune pronto a smantellarla punto su punto, la nuova speranza. Però, attenzione, tutto ciò non crea affatto il suo contrario, vale a dire la disperazione. Salvo rari casi, spesso drammatici, o tragici, si innesca invece un meccanismo di ricerca disordinata eppure ostinata, spesso, della speranza. Non facciamo che guardarci intorno, smarriti, ma la cerchiamo, la speranza. Non ci rassegniamo alla disperazione. Solo che abbiamo smarrito l’abbecedario. O, meglio, ce lo hanno sottratto. Dobbiamo ricostruirlo, rimettere insieme, pezzo dopo pezzo, un nuovo sussidiario della speranza, ché la speranza, lo sappiamo, ha molteplici aspetti. Come fare? Difficile dirlo. Da narratore credo che possano essere le storie, i romanzi, a darci una mano, intanto. Partire da qualche romanzo non disperato, ma al momento senza speranza, che racconti questa nostra epoca, questo nostro paese sgangherato, e da lì, poco a poco, rimettere in piedi speranza e fiducia. Ricominciare a raccontare, dunque, magari dal più classico dei racconti, che affronti i disagi e le contraddizioni del nostro oggi, e ci dica, per esempio, come lo viviamo oggi, in mezzo a tutto questo, l’amore. Ma sì, finiamo così queste mie voci di vocabolario, con una storia d’amore.
Grazie agli amici di Fahrenheit, grazie a voi ascoltatori-lettori, e buona estate a tutti, un saluto da Roberto Ferrucci.