Venezia, qualche giorno dopo
Questo mio articolo è uscito mercoledì 7 aprile 2010 su Il Fatto Quotidiano.
Cammini per Venezia, disimpegnandoti fra trolley multicolori, dribblando turisti impalati a cercare di sbrogliare sulla mappa il labirinto urbanistico più riuscito del mondo, e respiri un’aria che nel resto del paese manca da troppi anni. Da qualche giorno la maggioranza dei veneziani si muove fra le calli con passo più disinvolto, leggero. Sorridono, addirittura. Per mesi, non solo avevamo temuto, ma eravamo convinti che anche quest’isola e la sua terraferma fossero destinate a uniformarsi al resto della regione, all’andazzo della penisola intera, soggiogata dal capo e dai suoi slogan. E Venezia, finora, si era sempre tenuta lontana da tutto ciò. La convinzione si manifestò una sera di fine gennaio quando, improvvisi come la nebbia, degli enormi ritratti su sfondo azzurro apparvero a ogni imbarcadero della città (e a ogni fermata d’autobus a Mestre, anche se più piccoli). Laddove oggi aspetti il vaporetto osservando un bimbo biondissimo che imbracato a zaino sulle spalle di un padre biondissimo indica la gondola pronunciando un inevitabile “oohh”, qui, da quella sera di fine gennaio, i veneziani furono costretti a condividere le loro abituali attese all’imbarcadero assieme al faccione enorme di Renato Brunetta. Un manifesto che pullulava amore: musana (come si dice da queste parti) color dell’argento dei Baci, e sfondo azzurro con autografo in bianco come la scatola dei Baci. Eravamo del resto prossimi a San Valentino e non lontani né dal “vile attentato” con statuina, né dalla manifestazione dell’amore che vince sull’odio e sull’invidia. E noi, invidiosi, li abbiamo odiati subito, quei manifesti. Furono sufficienti però un paio di giorni, a trasformare quell’invasione in una performance creativa. Mani anonime li camuffarono nei modi più svariati fino al punto che – più mani, tante mani – a Ca’ Rezzonico, capovolsero il ministro, lo misero sottosopra. E quando i manifesti ritoccati venivano sostituiti, le anonime mani tornavano a intervenire all’istante. Quell’inizio di rivolta alla più opulenta, ostentata e invadente campagna elettorale (di una sola parte) mai vista a Venezia, forse poteva essere indicativa. Ma è possibile, a vostro avviso, oggi, in Italia, essere convinti che ciò che è logico si affermi? No. Nonostante i manifesti trasformati in installazioni artistiche, la maggior parte di noi veneziani era terrorizzata da Brunetta. Poi però, il centro sinistra veneziano (che oggi tutti chiamano laboratorio e tutti si augurano lo diventi davvero) ha deciso, un po’ per forza, un po’ per scelta, di rispondere con l’atteggiamento opposto. Una campagna elettorale essenziale, niente proclami, niente promesse impossibili, pochi manifesti, rarissimi volantini, a volte autoprodotti in casa. Giorgio Orsoni, il nuovo sindaco, è l’esatto opposto del ministro più amato dagli italiani. Mentre l’altro riceveva gli elettori nelle sfarzose sale dei migliori hotel veneziani, Orsoni girava per la città, tornava cioè a fare ciò che la sinistra si è fatta scippare dalla Lega. E ha vinto.
C’è una foto di Venezia che gira in rete. Venezia tutta intera, vista da quattrocento chilometri d’altezza, posta al centro della sua laguna, tutto un degradare di verdi e di azzurri e, in mezzo, Venezia che è un pesce color rosso veneziano. L’ha scattata l’astronauta Soichi Noguchi, il giorno dopo il risultato delle elezioni amministrative. Chissà se è per quello, allora – per lo scampato pericolo di una Venezia uniformata al resto del Veneto, la regione più a destra d’Italia – che il cielo sopra Venezia, quel 31 marzo, era così limpido, con dei colori così netti, inequivocabili. Un’immagine bellissima, ma che è anche un simbolo: Venezia la rossa (rosso veneziano, però, che non è proprio rosso rosso) circondata di verde e di azzurro. Più verde che azzurro. Quel verde color leghista, che vedi spuntare dal taschino di Luca Zaia o pendere giù dal collo di Flavio Tosi o schiumare dagli occhi e dalla bava di Giancarlo Gentilini. Un verde che ogni seconda domenica di settembre invade la città e chi abita dalle parti di Castello – il quartiere più popolare di Venezia – si è abituato a vedere e, soprattutto, ad ascoltare. Proclami da galera lanciati dal palco padano, slogan satolli di puro razzismo, urlati in Riva dei Sette Martiri. Ciò accade, paradosso, nella città forse meno leghista di tutto il nord Italia. Una città che il giorno prima della foto scattata dallo spazio, aveva respinto l’assalto del sedicente più amato ministro della Repubblica (e pure sedicente candidato al Nobel per l’economia) Renato Brunetta. Camminarci oggi, in Riva dei Sette Martiri, fermarsi davanti alla targa che ricorda l’eccidio nazista del 3 agosto 1944, e poi sedersi al bar a leggere o a scrivere (come fanno solo i turisti stranieri, ormai), è un sollievo. Di fronte, il panorama più bello del mondo e c’era già chi dava per certo il cambio di toponomastica di questo posto: Riva dei popoli padani. E chissà cosa avrebbero scelto per l’attigua via Garibaldi, cuore di Castello.
Passeggiamo leggeri, noi veneziani, sì. E passando accanto al “Bambino con la rana”, la statua di Charles Ray in Punta della Dogana, attorniata di visitatori che la fotografano prima di cambiare inquadratura e fare clic sul colpo d’occhio mozzafiato che hanno di fronte, al confine fra Bacino San Marco e Canale della Giudecca, guardi la statua con sollievo. Il bambino di marmo si è salvato dal proclama dell’aspirante imperatore-ministro, che in campagna elettorale aveva giurato l’avrebbe rimossa. Mentre non avrebbe affatto rimosso le grandi navi che solcano queste acque quotidianamente da marzo a novembre. “I passeggeri vogliono fotografare il Campanile e Palazzo Ducale? Portano denaro, lasciamoglielo fare”, ha detto cinico in campagna elettorale, esaltando le navi da crociera. Tipo quella che sta passando adesso, una MSC, che oscura il cielo, cancella l’isola della Giudecca, sovrasta Piazza San Marco, smuove là sotto, tonnellate d’acqua, devasta i fondali e le fondamenta della città. Il livello di inquinamento dei suoi fumi e la quantità di polveri sottili che sparge nell’aria sono paragonabili a quelle registrate vicino alla tangenziale di Mestre. Spesso ne passano anche sette al giorno. Orsoni ha promesso che non passeranno più di là.
La passeggiata sta finendo e te la godi fino in fondo perché, lo sai bene, questo sollievo non durerà a lungo. Svanito l’entusiasmo di questi giorni, sfumato il senso di leggerezza dopo il durissimo lavoro di questi mesi per far fronte al pericolo, sarà un senso di accerchiamento a prendere il sopravvento. Guarderai al di là dei confini comunali e ti verrà voglia di proporre una secessione al contrario. No, non che l’inesistente padania (con la p minuscola, ché, appunto, la padania non esiste) si sganci dal resto del paese, ma che la realissima Venezia si stacchi dal Veneto, nel quale rappresenta una evidente anomalia. O forse no, forse è il Veneto, leghista e perciò xenofobo, a essere anomalo. Forse.