Aria fresca a Venezia
Questo mio articolo è uscito il 30 marzo 2010 su il Manifesto.
Ora l’eco della risata sguaiata di quel candidato leghista, che replicava in quel modo alla mia constatazione ovvia: voi della Lega Nord siete razzisti, quella risata ha un sapore meno amaro, più vago. È un rumore flebile sovrastato dall’urlo di gioia quando la vittoria di Giorgio Orsoni è diventata finalmente certezza. Sì, lo so, lo sappiamo anche a Venezia che il resto del Veneto è in mano proprio a quelli delle risate sguaiate, a quelli che non fanno sconti, a quelli della tolleranza zero, a quelli che mettono i bambini i cui genitori non possono pagare la retta della mensa, a pane e acqua. Lo sappiamo. Ma ieri, a Venezia, sono stati sovvertiti i luoghi comuni dell’attuale politica italiana. Ieri, nel primo pomeriggio, l’animo della stragrande maggioranza dei veneziani si è alleggerito di un peso che grava ormai da anni. Un peso ritornato puntuale poco dopo, certo, ma ora più sopportabile, forse addirittura più decifrabile e perciò – forse – risolvibile, annullabile, un giorno, quel peso. Fin dal mattino ci siamo attaccati al computer. L’ottimo sito del comune di Venezia era pronto a squadernare percentuali, preferenze, dati. Speranze, insomma. Speranze che la sera precedente, la notte precedente, passata in bianco a studiare i risultati delle regionali per capire se, come e quanto avrebbero influito sul voto per il sindaco, speranze che, dicevo, sembravano svanite. Il trionfo di Luca Zaia in regione, pareva proprio non lasciare scampo. Così, fin dalle sette, nel silenzio di una Venezia nel pieno della sua primavera, nel pieno dei suoni tipici di questa stagione, sembrava stonata con quanto temevamo potesse accadere. Come poteva essere che quell’albero in fiore, là fuori, coincidesse con l’affermarsi di gente priva di scrupoli, pronta a tutto, al potere per il puro gusto del potere, cosa c’entrava, insomma, quel canto primaverile con la rabbia di Brunetta? Una rabbia che lui poi mistifica definendola amore. Già. E l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio, no? Io però lo so. Lo so perché faccio lo scrittore, lo so perché amo davvero e lo so perché il buon senso e la capacità di guardare non mi hanno ancora abbandonato: io so che l’amore è quello là fuori, quel canto di primavera. Non è né Brunetta, né il suo capo dal volto tumefatto dai lifting. Io lo so, e me lo ripetevo mentre, poco dopo le sette del mattino, guardavo la schermata dei dati ancora tutti sullo 0,00%. Nulla riusciva a far coincidere, per quanto mi sforzassi, la bellezza della mia città con una eventuale vittoria di Renato Brunetta. Cercavo, in quel canto di bellezza, una possibile forma di sopravvivenza nei prossimi cinque anni di un’amministrazione in mano comunque alle derive totalitarie di costoro e non c’era verso, non c’era scampo. Nulla di più stonato e fuori luogo. Ci sono volute delle ore, passate a scambiare sms, telefonate, email, a chiedere ad altri se sapessero qualcosa. E quando scoprivi che anche qualche dirigente del PD se ne stava nel suo ufficio, davanti alla stessa schermata con lo 0,00% accanto al nome di ogni candidato, accanto al simbolo di ogni lista, hai capito che non c’era altro da fare. Aspettare. Con quel groppo in gola. Con quel morso allo stomaco. Con quel canto primaverile di bellezza che diventava via via più insostenibile, alla luce dei tuoi timori. Fino all’arrivo della prima schermata, tre sezioni scrutinate su trecento tre. Una goccia nel mare. Giorgio Orsoni al 56,88%, Renato Brunetta al 38,27%. L’ho salvata quell’immagine, e inviata alla mia compagna, al lavoro. “Intanto sogna”, le ho scritto. Perché quello, sembrava essere. Un sogno. Che altro potevano essere tre sezioni su trecento tre? Intanto in rete i primi commenti. Non sui numeri, ma sul fatto che finalmente il momento decisivo era arrivato. Era iniziato davvero il conto alla rovescia del destino di Venezia. Le schermate si succedono, e di refresh in refresh, Giorgio Orsoni non va mai sotto il 50%. Anzi, si attesta subito al 51% e rotti, ripetuto, preciso, puntuale. Così come è preciso e puntuale il 42% e decimali di Brunetta. E di refresh in refresh vai a sfrugugliare fra le varie zone della città. Che il centro storico di Venezia sia da sempre di sinistra, si sa. Che la terraferma lo sia ogni volta sempre un po’ meno, si sa anche questo. Ma questa volta sembra tenere, eccome. È l’estuario, il problema. Il Lido, Pellestrina, Burano, zone che sembrano far parte di un altro pianeta. È lì che la Zaccariotto, la presidente leghista della provincia, ha vinto lo scorso anno. Percentuali bulgare, tutte sopra il sessanta per cento. E infatti lì Brunetta è in vantaggio, ma molto al di sotto del sessanta, e anche del cinquantacinque. Ma le sezioni scrutinate sono poche. Ansia. Un’ansia che si condivide in rete con chi sta lì, come te, ad aspettare e a cercare conforto, conferme. E quando le sezioni arrivano più o meno alla metà, lì ormai è chiaro. Giorgio Orsoni vince, e vince al primo turno contro la portaerei di Arcore. Chiudo tutto ed esco, direzione Ca’ Farsetti. Per strada, l’iPhone tiene d’occhio i dati, vedi mai che, come nel 2006, da Arcore arrivi il miracoloso recupero e, per strada, incrocio gli ambulanti africani, le loro borse infilate fra le braccia. Li guardo e penso che vorrei venissero a festeggiare anche loro, che hanno potuto votare alle primarie di gennaio. Arrivo al municipio subito dietro al piccolo corteo che sta accompagnando il nuovo sindaco di Venezia nella sala consiliare. Ci sono sua moglie, i suoi figli. Sopra, persone dallo sguardo lucido, dall’aria incredula e soddisfatta, consapevoli di aver fatto un ottimo lavoro. Orsoni stringe mani, abbraccia, sorride. Flash, interviste. Arriva finalmente allo scranno che sarà suo per i prossimi cinque anni e le sue prime parole da sindaco sono: “Non so cosa dirvi”, e tutti sorridono. Poi dice, invece, ringrazia, parla. Poco: “Basta, potrei dire delle sciocchezze se continuo”. Noi ci guardiamo in faccia, gli occhi lucidi. Fa caldo, ma c’è un senso evidente di liberazione. Venezia città della resistenza. Qui, si respira. Almeno un po’.