Panatta, la maglietta rossa
Questo mio articolo è uscito ieri, 22 ottobre 2009, su Il Manifesto.
Quella maglietta rossa se ne sta, credo, insieme alla blu e alla verde, dentro a uno scatolone nel magazzino dei miei. Scolorite, immagino, sia dagli anni che dai molteplici lavaggi. Comprate grazie all’accumulo di paghette settimanali e qualche raro bel voto a scuola, in piena adolescenza e, naturalmente, a quell’età, in piena emulazione. Mai avrei potuto pensare, quindicenne, che il mio primo romanzo si sarebbe intitolato “Terra rossa” (Transeuropa, 1993). Era il 1976, l’anno di Adriano Panatta. La maglietta verde e la blu trionfarono per un’intera estate, da maggio in poi, l’una sostituiva l’altra appena entrata in lavatrice. Erano le stesse magliette (solo qualche misura e tanta classe in meno) che Adriano Panatta indossò al Foro Italico e al Roland Garros di quell’anno, i due tornei che vinse uno dietro l’altro, i due più importanti in terra battuta. Con quelle magliette batté l’argentino Guillermo Vilas in finale al Foro Italico e lo statunitense Harold Solomon al Roland Garros (dopo aver battuto anche il campione in carica ai quarti, un certo Bjorn Borg). Vittorie che lo portarono al numero 4 della classifica ATP e a diventare l’idolo di milioni di ragazzini. Per conoscere precisamente i colori di quelle magliette, fu necessario aspettare l’uscita della rivista Match-Ball, con le foto a colori, oppure le copertine dell’Albo dell’Intrepido o del CorrierBoy, variante adolescenziale del Corriere dei Piccoli. In tv, le partite erano in bianco e nero, e le magliette di Panatta, gamme differenti di un perpetuo grigio. Ciononostante è a colori il ricordo della tensione provata e vissuta minuto per minuto nell’assistere a quelle lunghissime sfide nella piccola televisione in bianco e nero di casa. Nel corso di quell’estate, molti cortili della penisola si trasformarono in improbabili campi di tennis, circondati da appartamenti con fragilissime finestre che in quantità industriali andarono in frantumi, vittime di maldestre volées e di sgangherati smash. Per non parlare di chi tentava di imitare il servizio di Adriano Panatta, con quei due leggeri su e giù delle braccia prima del movimento finale o, peggio ancora per l’incolumità di gomiti e ginocchia, le sue volée in tuffo, entrate di diritto nella leggenda del tennis. Risultato, vetri infranti e automobili prese a pallate. Ma, lo avrete notato anche voi, gli adulti di un tempo erano molto più tolleranti e comprensivi di quelli di oggi. La maglietta rossa invece fu sfoggiata per l’intera primavera estate successiva alla vittoria della Coppa Davis contro il Cile nel dicembre del 1976, quando, grazie alla pubblicazione di qualche foto finalmente a colori della vittoria a Santiago, fu chiaro che Adriano Panatta aveva scelto quel colore da indossare nella finale. Finale peraltro invisibile, trasmessa solo alla radio, ascoltata la sera tardi, per via del fuso orario, per rendersi poi conto che non c’è nulla di più assurdo che una radiocronaca di tennis. Fino a qualche giorno fa pensavo che la scelta di quel colore fosse stata fatta dallo sponsor, per alimentare le vendite, visto che le verdi e le blu erano ormai andate a ruba fra i ragazzini appassionati di tennis. Serviva qualcosa di nuovo e perciò via col rosso. Inoltre la finale si giocò pochi giorni prima di Natale. Ben più nobile e gradita è ora la vera storia di quella maglietta, confidata da Andriano Panatta a Mimmo Calopresti, il regista di “La maglietta rossa”, documentario che verrà proiettato oggi al Festival di Roma. Peccato non averlo saputo prima, quando, in quegli anni, fatti di impegno, di manifestazioni, di assemblee, era così difficile per un adolescente far collimare la passione per il tennis, sport ritenuto borghese, a quella per la politica. Ah, quanto sarebbe stato facile, allora, liquidare chi ti criticava, chi ti dava dell’incoerente, raccontando la storia della maglietta rossa sbattuta in faccia al dittatore Pinochet. Forse, però, ha ragione Adriano Panatta. Fa bene, lui, ad aver scelto di raccontarcela solo oggi, quella storia. Perché la storia della maglietta rossa, nell’Italia incarognita e disgustosa che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, è una piccola ma importantissima lezione di storia da dedicare ai mistificatori e ai revisionisti. Quella maglietta rossa, oggi lo sappiamo, ha dato fastidio ai dittatori cileni più di cento cortei e di slogan. E oggi, al pari forse dei calzini turchese del giudice Mesiano, dovrebbe essere indossata ogni volta che l’arroganza e l’ignoranza di un potere ottuso liquida come comunista chiunque osi criticare, controbattere, replicare, accusare. Perché il colore di quella maglietta, oggi come allora, ha un significato, un valore e una forza che nessuno può cancellare. Nemmeno con una volée in tuffo.