Il Veneto che amiamo
Questo articolo di Riccardo Bottazzo è uscito ieri sul quotidiano Terra.
Il Veneto che dobbiamo costruire. Gli scrittori e un futuro diverso
Intervista a Bettin Carlotto Ervas Ferrucci Voce
di Riccardo Bottazzo
Venezia. A Forte Marghera, nella prima giornata dell’incontro promosso dalle associazioni e dai comitati di difesa del territorio, le voci di Carlotto, Bettin, Ferrucci, Voce ed Elvas come contributo a immaginare una regione diversa.
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare a quel «progresso scorsoio», per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” (edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin) ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un territorio radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti: «Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. Le opinioni le fa la tv. Io abito e Venezia e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano». Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto «vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere ».
Non ci resta che piangere? «è vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas -. Tra “Veneto alla Lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali) e grandi progetti devastanti come Veneto City, aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile». Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita.
«E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità». Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. «Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta “Forza Vesuvio”. è stata dura». Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista.
«Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra». Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. «Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto -. Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi».
«Un Veneto che stride crudamente con quello oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta».