Zehar, abbiamo ucciso un poeta

Questo mio articolo è uscito sabato 20 dicembre sul Corriere del Veneto.

Morire adolescente, in una tasca tre pupazzetti, nell’altra un taccuino. Alle spalle, lontana, la tua terra natìa, un paese in guerra. Davanti, opaco, un vago futuro di libertà. Sotto, a pochi centimetri dalla cintura che ti lega al fondo del tir, l’asfalto. Sopra, a pochi millimetri dalla tua testa, la ruota che, invece di portarti lontano, ti schiaccerà. È morto così Zehar Rezai, ragazzo afgano, e siamo stati noi a lasciarlo morire. A ucciderlo, forse. Tutti noi, indifferenti a tragedie che potrebbero essere evitate se solo smettessimo di prestare attenzione ai demagoghi da quattro soldi, autori, con il nostro più o meno tacito consenso, di leggi prossime al razzismo più puro. Fosse successo solo pochi anni fa, l’indignazione sarebbe stata diffusa, ampia. Oggi, nonostante gli sforzi dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Venezia, nonostante le associazioni che operano nel silenzio, nonostante la stampa che ha dato l’opportuno risalto a questa tragedia, nonostante tutto questo, in giro la gente non ne parla. E non si tratta ahimè di discrezione o di riserbo. No. È indifferenza pura e semplice. È, ha detto qualcuno, il prezzo da pagare per garantire la sicurezza. Nel paese dove la paura è diffusa istituzionalmente, dunque, è tremendamente normale accorgersi che dei ragazzini possono morire in questo modo. Normale, perché qui, nella nazione della paura, non siamo capaci di garantire il minimo dei diritti umani. Zehar è morto nei giorni in cui si celebravano i sessant’anni della Carta dei Diritti dell’Uomo. Una beffa.
Era un poeta Zehar. In una vita che aveva poco o nulla da offrirgli, lui riusciva a trovare momenti di emozione, di sentimento, e le metteva in versi. Abbiamo lasciato morire, forse ucciso, un poeta. Un ragazzino che sognava solo di poter lavorare in un paese libero. Ma sono liberi i paesi che fanno in modo che queste tragedie avvengano? Riusciamo a porla alle nostre coscienze questa domanda? È commovente – oltre che, ovviamente, utilissimo – il lavoro che il Comune di Venezia sta facendo. Ti scuote dentro leggere la traduzione delle poesie, tradotte e introdotte dalla mediatrice culturale Francesca Grisot. Una lettura che dovrebbe arricchire le anime di tutti noi, sconquassarle, metterle in discussione. Una lettura da portare nelle scuole, per imparare, per capire. Perché la storia di Zehar Rezai dovrebbe essere il nostro racconto di Natale da leggere e rileggere, da vivere e rivivere insieme. E alla fine farne esperienza. Provare a invertire, con la forza della poesia di un adolescente afgano, la coscienza collettiva di un paese, il nostro, la cui deriva, indifferente e intollerante al contempo, sembra essere ormai, ahimè, ineluttabile.