Venezia 65, culturali e tendoni

Questo mio articolo è uscito sul Corriere del Veneto di oggi.

Arrivi, l’autobus si ferma e le porte si spalancano davanti a una parete bianca. Poi scendi e quasi ci sbatti addosso, al tendone di tela di plastica. Lo aggiri, e dietro ce n’è un altro, poi un altro e un altro ancora. Bianchi uguali, da sagra paesana, fatti di quella plastica che porta con sé, quando li ammiri, tutta la precarietà del mondo. Sì, il contorno di questa Mostra del Cinema numero 65 è tutto così, un continuo saliscendi di plastica bianca. Provvisorio e un po’ triste. Tendoni e gazebi che – in mezzo a qualcuno coerente, tipo Libreria del Cinema o lo stand della Fandango – spiccano per la loro incongruenza. Su tutti, il desolato gazebo di Cesare Ragazzi, che non attira nemmeno il più calvo dei cinefili presenti alla Mostra. Che c’entrino nessuno lo sa, ma che ti facciano sentire come se fossi alla sagra della tegolina, quella è cosa certa. Peccato, perché basterebbe così poco. Non serve essere un esperto architetto per sapere che al posto dei posticci tendoni potrebbero tranquillamente essere utilizzate delle altrettanto posticce e altrettanto economiche strutture, più consone a un festival che ancora si vanta di essere il più prestigioso, se non importante, al mondo. O, quanto meno, provare a usare un materiale diverso da quella plasticona bianca. Fai un giro su te stesso, ti prende lo sconforto, ma poi vale però la pena avere fiducia nel da poco insediato presidente Baratta, per sperare che, grazie al suo stile, alla sua sobrietà, il colpo d’occhio, dall’anno prossimo, diventi più accettabile. Sobrio, non pomposo. Poi, però, il paesaggio desolato del Lido di questi giorni è perfettamente coerente all’atmosfera complessiva. Non era mai successo di assistere a una Mostra senza nessun sovraffollamento di sala, nessuna proiezione ripetuta. C’è molta meno gente al Lido. Ed è evidente chi manca o, meglio, chi alla fine è stato escluso del tutto. I cinefili veri, gli appassionati, gli studenti di cinema, quelli che una volta si chiamavano “culturali” per via del nome delle loro tessere. Espulsi non per decreto, ma per manifesta impossibilità, da parte loro, di poter sopravvivere in mezzo a un trionfo di tessere Press Industry, Daily Press e così via. Impossibilità di poter trovare un buco che per dieci giorni non gli costi come le tasse d’iscrizione all’università. Ecco, sono loro a essere spariti del tutto quest’anno. Per almeno un quinquennio hanno provato a resistere, a tenere duro. Una manciata ancora si aggira, come dei panda, nei dintorni del Palabiennale. Senza di loro è stato escluso il futuro del cinema, il futuro per il cinema. E anche questa, per il presidente Baratta, è una questione di colpo d’occhio, come i tendoni. Chissà non ce la faccia, grazie alla sua abilità, alla sua sobrietà, a riportare il panorama della Mostra a ciò che era un bel po’ di tempo fa, senza tendoni e con tanti ragazzi che si cibavano di cinema, per diventare poi, molti di loro, il nuovo cinema italiano. Compito non facile ma, credo, doveroso, necessario.