Scrittori in piazza (2)

Questo articolo è uscito sul Corriere del Veneto del 26 gennaio.

Certo che lo sappiamo, noi scrittori. Non siamo mica così ingenui da guardare il dito, se uno ci indica la luna. Non faremmo il mestiere che facciamo, altrimenti. Sappiamo bene che ciò che sta accadendo in Veneto ha radici lontane e complesse. Lo sappiamo, lo abbiamo scritto. Non le abitiamo e basta, le nostre terre. No. Le abbiamo vissute, osservate, ascoltate, attraversate, raccontate. I nostri libri ne sono i testimoni. Basterebbe leggerli. Non ci importa proprio di parlare ai sindaci di Treviso, Cittadella, Montegrotto. Non hanno – volenti o nolenti, poco importa – nulla da comunicarci e, non a caso, invitati nei giorni scorsi ai più vari dibattiti televisivi, messi a confronto col sindaco di turno, abbiamo gentilmente declinato l’invito. Non sono loro i nostri interlocutori. Non lo saranno mai. E proprio perché non siamo ingenui abbiamo dato appuntamento a tutti in piazza. In una piazza che nel tardo pomeriggio di oggi, a Treviso, sarà attraversata da tanti che quegli amministratori li hanno votati con convinzione, nelle percentuali a volte quasi bulgare che conosciamo. Saremo lì soprattutto per loro, per dirgli che c’è un Veneto diverso, che non ci sta, che si riconosce in valori ben diversi da quelli propagandati dai razzisti istituzionali. Saremo lì a dirgli che, pur sempre sotto tiro, quei valori non sono affatto stati uccisi. Saremo lì per dire che le parole devono tornare al centro del loro significato. Saremo lì a far fronte allo svilimento dei significati perpetrato dai coniatori di slogan violenti e mistificatori. E lo faremo con la sola forza della voce, nessun megafono, proprio niente da amplificare, noi, a differenza degli urlatori. Leggeremo testi che dovrebbero far parte del patrimonio intimo ed elementare di ognuno: il Vangelo, Primo Levi, Leopardi, Brecht, la carta dei Diritti dell’Uomo. Vogliamo sussurrare poesia alla gente laddove gli altri sbraitano idiozie becere. Vogliamo dialogare laddove altri mistificano, semplificano, imbrogliano (tipo il grande imbroglio di chi ripete parole vuote come "non si tratta di razzismo ma di sicurezza da dare ai cittadini”, spostando il significato, chiedendo, loro sì, a chi li ascolta, di guardare il dito, non la luna). Sì, desideriamo tentare di parlare a coloro che votano per chi sta istituzionalizzando il razzismo, che stravede per un segretario di partito che urla "o elezioni o rivoluzione armata" (e in qualunque paese democratico verrebbe ammanettato all’istante). Vorremmo far riscoprir loro il valore di parole determinanti, parole fondamentali per uno stare al mondo quanto meno dignitoso e civile. Parole elementari, cancellate dal dizionario dei loro rappresentanti istituzionali ma non per questo sparite. No, se ne stanno lì, quelle parole, nel pieno potere del loro significato. Splendide, forti. Invincibili, nonostante tutto e tutti. E il ruolo dello scrittore, oggi, è forse proprio questo. Riportare la parola al centro della vita, come fu un tempo e come dovrebbe ancora essere. Sempre. Parole che connotano valori, idee, sentimenti. Rispondere con la semplicità della poesia ai semplificatori istituzionali, a qualche intellettuale da salotto. Ridare voce alla parola, insomma. Parola che altri in questi anni hanno spogliato, contraffatto, corrotto. Sì, può sembrare un’impresa titanica, oggi, fare questo. Eppure è il nostro stesso mestiere a imporcelo. Per contrastare l’idiozia, l’arroganza, la banalità. L’intolleranza sempre più diffusa in queste nostre terre. Terre che continueremo a raccontare e ad amare.